L’emergenza Covid-19 in Palestina. Tra prove di distensione e minacce di annessione

Il 5 marzo, dopo un primo caso positivo di Covid-19 a Betlemme, l’Anp ha dichiarato lo stato di emergenza in Cisgiordania. Da allora, l’Ocha (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) ha registrato 630 casi positivi, di cui 179 a Gerusalemme Est, 569 in West Bank (soprattutto a Betlemme, Ramallah e Hebron), e 61 a Gaza. Nei territori palestinesi sono stati eseguiti 42417 tamponi (di cui 7100 a Gaza), e più di 62.000 persone sono state sottoposte a quarantena presso la propria abitazione o presso i numerosi centri designati. L’emergenza sanitaria ha imposto delle responsabilità alle autorità israeliane e ha creato un terreno di cooperazione tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza.

Infografica OCHA 3 Giugno 2020.

Il 22 marzo, l’Anp ha imposto un lockdown generale, prevedendo la chiusura degli uffici e di tutte le attività commerciali non essenziali fatta eccezione per le farmacie e i negozi di generi alimentari; imponendo ampie limitazioni di movimento per la popolazione, se non per comprovati motivi di necessità; vietando gli spostamenti tra le città e tra i diversi governatorati; infine obbligando alla quarantena presso gli appositi centri tutti coloro che rientravano dall’estero. 

L’adozione di misure così rigide è giustificata dalle precarie condizioni del sistema sanitario palestinese, carente di presidi sanitari specialistici, come ventilatori polmonari, tamponi e dispositivi di protezione del personale medico. Tuttavia, il protrarsi di queste misure avrebbe avuto un effetto disastroso per l’economia della Cisgiordania, già indebolita da decenni di occupazione israeliana. Secondo la Banca mondiale, nel 2020 l’economia palestinese perderà tra il 2,6 e il 7,6% del Pil, a causa della ulteriore riduzione dei consumi e dell’aumento della disoccupazione, il cui tasso già supera il 30%, mentre la spesa pubblica potrebbe aumentare di 2 miliardi di dollari. 

Pertanto, dal 21 Aprile l’Autorità palestinese ha allentato le restrizioni, permettendo una parziale riapertura delle industrie (operative con il 50% del personale) e delle attività commerciali (aperte per tre giorni alla settimana). Per quanto concerne le restrizioni sugli spostamenti, con l’inizio del Ramadan (23 Aprile) l’Anp ha richiamato la popolazione al rispetto delle misure di distanziamento sociale e al divieto di assembramenti, ma ha ammorbidito il divieto di movimento stabilendo il coprifuoco dalle 19 di sera sino al mattino, consentendo così alle famiglie di riunirsi per l’ifṭār. Tuttavia, moschee, chiese, scuole e altri luoghi pubblici sono rimasti chiusi e le celebrazioni vietate. Questo regime potrebbe ulteriormente irrigidirsi in occasione del rientro dei lavoratori da Israele per la festa del Eid al Fitr (23 Maggio 2020).

Vista la pericolosità e l’elevata contagiosità del virus, il governo israeliano e l’Anp stanno cooperando attivamente per arginare l’emergenza Covid-19. Israele ha trasferito all’Anp 800 milioni di shekel (derivanti dall’anticipo sulle entrate fiscali che Israele riscuote per conto dell’Autorità palestinese) e supportato la creazione di un meccanismo unitario di comunicazione con Ramallah e di coordinamento tra le forze di polizia. In ambito sanitario, Israele ha fornito tamponi, attrezzature protettive per gli operatori sanitari (sebbene finora in quantità limitate) e ha provveduto alla formazione congiunta del personale sanitario palestinese. Inoltre, l’Anp e il governo israeliano hanno raggiunto un accordo per agevolare il rientro sicuro dei lavoratori palestinesi in Israele e per garantire il pernottamento per coloro che vi rimangono per ragioni lavorative. Il Sindaco di Gerusalemme Moshe Leon, con un gesto simbolico, ha partecipato alla distribuzione di generi alimentari al campo rifugiati di Shuafat.

Israele ha fornito 39.000 permessi di lavoro e in varie tornate ha permesso il rientro dei lavoratori palestinesi impegnati nell’agricoltura, nelle costruzioni e nelle industrie dislocate nel territorio israeliano, con l’obbligo di permanere nei pressi del luogo di lavoro per almeno un mese senza far ritorno in Cisgiordania. Durante la crisi epidemiologica, non sono mancati incidenti – tra cui quello che ha visto un palestinese positivo scaricato al confine con la Cisgiordania -, diversi attacchi e intimidazioni a contadini palestinesi, ed episodi di vandalismo contro veicoli e ulivi da parte dei coloni.

Tuttavia, al fine di inquadrare correttamente il comportamento di Israele, è necessario tener presente gli oneri straordinari di diligenza posti in capo alle potenze occupanti secondo il diritto Internazionale umanitario in caso di epidemie. Secondo l’Art. 56, comma 1, della IV Convenzione di Ginevra, «La Potenza occupante ha il dovere di assicurare, nella piena misura dei suoi mezzi, e di mantenere, con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato, specie adottando e applicando le misure profilattiche e preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di epidemie. Il personale sanitario d’ogni categoria sarà autorizzato a svolgere la sua missione».

La città di Gaza.
Fonte: Wikimedia Commons.

Il 22 Marzo 2020 due cittadini di Gaza, provenienti dal Pakistan e rientrati attraverso l’Egitto, sono risultati positivi al Covid-19. La notizia ha creato un’altissima allerta in un territorio con una densità di popolazione tra le più alte al mondo, che da 13 anni è soggetto all’embargo su merci e movimenti delle persone imposto da Israele ed Egitto. Circa 1,9 milioni di persone assiepate in citta densamente popolate e in campi rifugiati, condizioni di estrema povertà, disoccupazione al 70%, e condizioni igienico-sanitarie precarie creano un contesto ideale per la rapida diffusione di un virus. Secondo l’Oms, la mancanza cronica di medicine, di strumentazione medica e di dispositivi di protezione per il personale sanitario impatta enormemente sulla capacità di risposta adeguata in caso di diffusione del virus. In tutto il territorio vi sono solo 70 unità di terapia intensiva e 50 ventilatori polmonari malfunzionanti. La carenza di acqua potabile e i frequenti blackout elettrici causati da Israele aggravano la situazione. 

Per arginare la diffusione del Covid, Hamas non ha completamente predisposto un lockdown, ma ha inizialmente predisposto la chiusura di mercati pubblici, scuole e centri eventi. A queste misure si è aggiunta la chiusura di cafè e ristoranti e la sospensione della preghiera comunitaria del venerdì. Circa 1.800 persone entrate a Gaza tramite l’Egitto e Israele sono state sottoposte a 21 giorni di quarantena obbligata a casa o nei 19 centri designati. Inoltre, dal 12 marzo l’accesso a Gaza dal valico di Erez è stato ulteriormente limitato, anche per i titolari di autorizzazione e in modo simile anche il valico di Rafah dall’Egitto è stato parzialmente chiuso il 15 marzo, con orari di apertura che rimangono irregolari. Tuttavia, il 27 aprile le autorità di Hamas hanno autorizzato la riapertura dei ristoranti di Gaza, nel rispetto di alcune misure igieniche e di distanziamento fisico, mentre scuole, moschee, sale per matrimoni e altri spazi pubblici rimangono chiusi, e il divieto di raduni pubblici persiste.

A fine di evitare un’esplosione di casi positivi nella Striscia, che metterebbe in pericolo anche i confinanti Israele e Egitto, i due governi hanno ufficiosamente adottato misure umanitarie per supportare Gaza. Hamas e Israele hanno di fatto adottato un cessate il fuoco. Inoltre, il governo israeliano ha inviato circa 200 tamponi e ha consentito che alcune unità di personale sanitario di Gaza fossero addestrate presso la struttura del Barzilai Medical Center di Ashkelon e al valico di Erez. Anche l’Egitto ha riaperto provvisoriamente il valico di Rafah tra il 12 e il 14 maggio, consentendo il ritorno a Gaza di 1.500 palestinesi. 

Per quanto concerne gli aiuti internazionali, l’Onu ha approvato il COVID-19 Inter-Agency Response Plan for the OPT, un programma volto a sostenere gli sforzi condotti dal governo palestinese per contenere la pandemia e mitigarne l’impatto fino alla fine di giugno 2020. Il piano prevede l’erogazione di 42.4 milioni di dollari (ad oggi soddisfatto solo per il 50%), da ridistribuire in spese sanitarie, alimentari, educative e di Wash ( Water, Sanitation and Hygien). Inoltre, ha adottato il piano Risk Communication and Community Engagement (RCCE), per informare la popolazione sulle misure di prevenzione del COVID-19. L’Oms sta anche rilasciando una guida alle autorità civili e religiose riguardo gli standard sanitari da applicare durante le liturgie e il Ramadan. 

Gli sforzi congiunti per evitare la diffusione del Covid-19 sono stati recentemente vanificati dall’esplosione di alcuni razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e dalla conseguente reazione delle autorità israeliane che hanno risposto militarmente agli attacchi e minacciato l’annessione della Cisgiordania. Forte dell’appoggio di Trump, Benjamin Netanyahu ha peraltro posto l’annessione come condizione per la propria partecipazione a una coalizione di governo. Questa minaccia rischia di invalidare tutti i successi di cooperazione ottenuti in materia di Covid-19 e pone in serio pericolo la stabilità politica dell’Anp.

Maria Sole Continiello Neri