A poco meno di due anni dagli eventi del 7 ottobre 2023 e dalla conseguente guerra che ha sconvolto l’intero Medio Oriente, la Striscia di Gaza continua a rappresentare l’epicentro delle crisi regionali. Le operazioni militari israeliane nella città di Gaza, così come i tentativi di annessione della Cisgiordania, hanno inaugurato una nuova fase del grande conflitto mediorientale, caratterizzato da livelli straordinari di intensità e violenza. Ancora una volta, la guerra e le sue evoluzioni anche recenti si configurano come strumenti capaci di alterare dinamiche politiche e processi complessi in un contesto già frammentato e caotico, a livello sia mediorientale che internazionale.
Gaza: dal fronte militare al progetto della ‘riviera’
La Striscia di Gaza continua a essere l’epicentro dell’attivismo israeliano. I raid aerei e le incursioni terrestri, in particolare nell’area di Sheikh Radwan e nella città di Gaza, hanno prodotto nuove ondate di sfollamento e vittime civili, aggravando una crisi umanitaria già drammatica. Le stime internazionali (per difetto) parlano di oltre 63.000 palestinesi uccisi dall’ottobre 2023, mentre la malnutrizione – soprattutto infantile – è ormai una realtà strutturale, che rischia soltanto di peggiorare. La distruzione di ospedali, scuole e reti idriche ha reso impossibile garantire condizioni minime di vita, mentre l’accesso agli aiuti umanitari continua a essere ostacolato da restrizioni israeliane e difficoltà logistiche, rafforzando le accuse di genocidio mosse contro Tel Aviv.
In questo quadro, si inserisce la prospettiva di un’occupazione permanente, collegata al progetto statunitense della cosiddetta ‘riviera’ di Gaza. Secondo quanto rivelato dal Washington Post, l’amministrazione Trump avrebbe elaborato un piano post-bellico – il Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust (GREAT Trust) – presentato come programma di riqualificazione e sviluppo infrastrutturale con l’obiettivo di trasformare la costa in un hub turistico ed economico. In realtà, tale piano appare come un disegno di ingegneria politica e demografica volto a marginalizzare i palestinesi, confinandoli in aree ristrette (al-Mawasi e Rafah) o spingendoli a un esodo forzato verso il Sinai egiziano, senza prospettive di ritorno.
Non sorprende che le reazioni palestinesi e arabe siano state di netta contrarietà. A Gaza e a Ramallah, il GREAT Trust è percepito come un tentativo di normalizzare la cancellazione dell’identità palestinese, evocando la memoria della Nakba del 1948. Attivisti e leader locali lo hanno definito un «piano di colonizzazione mascherato», analogo a quanto già avvenuto in Cisgiordania, che trasformerebbe i palestinesi in manodopera a basso costo in un’area destinata a ospitare capitali stranieri (anche arabi dal Golfo Persico). L’Autorità nazionale palestinese (ANP) teme che Gaza diventi un chiavistello simbolico e politico per favorire nuove annessioni de facto nelle aree più sensibili della Cisgiordania: queste sono le terre ad alta concentrazione di insediamenti ebraici come i quartieri arabi di Gerusalemme Est, la valle del Giordano e più in generale i grandi blocchi colonizzati dell’area C.

Cisgiordania: verso l’annessione
Non a caso, le preoccupazioni maggiori di palestinesi e arabi si concentrano sulla Cisgiordania, come Gaza al centro di un processo di trasformazione territoriale e politica che potrebbe avere effetti irreversibili. Il ministro israeliano delle Finanze Bezalel Smotrich, figura di spicco del blocco religioso-nazionalista della compagine di governo, ha rilanciato l’idea di un’annessione da parte di Tel Aviv estesa fino all’82% del territorio della regione, un progetto che mira di fatto a rendere impossibile la creazione di uno Stato palestinese indipendente. A tal fine è stato riattivato il piano E1, che prevede la connessione tra l’insediamento di Ma’ale Adumim e Gerusalemme Est: un’iniziativa che spezzerebbe la continuità territoriale tra la Cisgiordania settentrionale e quella meridionale, relegando i palestinesi in enclave frammentate e scollegate, con pesanti conseguenze sulla possibilità di costruire la capitale di uno Stato di Palestina a Gerusalemme Est.
L’espansione territoriale e le annessioni de facto potrebbero, però, acuire il senso di oppressione e frustrazione tra i palestinesi, offrendo terreno fertile a nuove ondate di radicalizzazione e intensificando la spirale di violenza. In questo senso, la combinazione tra pressioni territoriali e recrudescenza del terrorismo rischia di acuire la fragilità della sicurezza israeliana, rendendo illusoria la promessa di stabilità garantita dall’uso della forza militare. Si inserisce in questo quadro, infatti, il recente attentato a Gerusalemme (8 settembre 2025): un atto né inaspettato né nuovo, che, tuttavia, mette in evidenza il rischio concreto che Israele possa ripiombare in una nuova stagione di terrore.
Anche alla luce di ciò, rischia dunque di alimentare ulteriormente le tensioni la mozione approvata nel luglio 2025 dalla Knesset con cui si invita ad «applicare la sovranità israeliana» sulla Cisgiordania. Pur non vincolante, il documento ha un forte valore politico, poiché rappresenta un passo simbolico verso l’annessione formale, anticipando una dinamica che sul terreno è già in atto da anni attraverso l’espansione degli insediamenti e l’erosione progressiva della presenza palestinese. Gli effetti tangibili sarebbero diversi, a cominciare dalla crescita degli insediamenti (oggi circa 279, con una popolazione stimata in 800.000 abitanti) con nuove costruzioni che modificherebbero la geografia dell’area, riducendo ulteriormente lo spazio disponibile per i palestinesi. A favorire sul campo l’attuazione del piano vi sarebbero sia le demolizioni di abitazioni palestinesi e le restrizioni di movimento – che di fatto trasformano la vita quotidiana in una lotta continua per la sopravvivenza – sia la forsennata azione dei coloni ebraici, i quali con le loro violenze – spesso tacitamente o esplicitamente accettate dall’esercito israeliano – esacerbano le contrapposizioni con l’obiettivo di spingere gli arabo-palestinesi a lasciare quei territori. Un vero e proprio processo di ‘espulsione silenziosa’, soprattutto dei residenti delle comunità rurali, una dinamica erosiva che già oggi sta alterando gli equilibri demografici e sociali della Cisgiordania. A sostenere e legittimare tale trasformazione è il movimento religioso-nazionalista, oggi centrale nella coalizione di governo guidata da Benjamin Netanyahu. Per queste forze politiche e ideologiche, i Territori occupati non possono essere oggetto di negoziato, perché nella loro visione non esiste alcuna Cisgiordania: ci sono solo Giudea e Samaria, che in attuazione del «mandato messianico» devono essere integrate come parte naturale e inalienabile della «Terra d’Israele».
Questa visione, unita a un pragmatismo violento e colonizzatore radicato da decenni, contribuisce a rendere sempre più irreversibile il processo di annessione e a dilaniare la stessa società israeliana, che non è monolitica. Una parte significativa, soprattutto urbana, laica e appartenente ai ceti medi e professionali, esprime crescente preoccupazione per i costi politici, economici e diplomatici delle operazioni a Gaza e in Cisgiordania. Le proteste civiche, pur meno imponenti rispetto al 2023, continuano a segnalare la presenza di un segmento sociale che teme un logoramento senza fine: la perpetuazione della presenza militare a Gaza, l’isolamento internazionale e la progressiva trasformazione di Israele in una etnocrazia fortemente connotata dal punto di vista religioso, nonché segnata da discriminazioni sistemiche e da una deriva illiberale. Per queste fasce di popolazione, Israele rischia infatti di pagare a carissimo prezzo l’illusione di una sicurezza ‘immediata’, pregiudicando la propria legittimità nel lungo periodo agli occhi dell’opinione pubblica globale e compromettendo i rapporti con partner strategici in Occidente. Al contrario, una altrettanto consistente porzione dell’opinione pubblica interna sostiene con convinzione non solo l’occupazione di Gaza, ma anche l’annessione della Cisgiordania. Per questi settori della società israeliana – spesso legati a contesti religiosi, nazionalisti o ideologicamente affini al populismo di Netanyahu – l’espansione territoriale rappresenterebbe la ‘soluzione definitiva’ alla questione palestinese, un modo per ‘chiudere il dossier’ una volta per tutte. La narrazione prevalente in questi ambienti descrive la Cisgiordania come parte integrante e naturale di uno «Stato ebraico», cancellando di fatto la possibilità di una divisione territoriale o di un compromesso politico.
Ne deriva una frattura interna profonda: da un lato chi teme l’isolamento internazionale e l’erosione della democrazia israeliana; dall’altro chi vede nell’annessione la realizzazione di un destino storico e politico. Queste divisioni interne si intrecciano con quelle esterne, alimentando un clima di polarizzazione crescente che espone Israele a tensioni sociali, a proteste di piazza e a un’instabilità politica che rischia di aggravarsi ulteriormente nei prossimi anni.

Fonte: Wikimedia Commons
Reazioni arabe e fragilità degli accordi di Abramo
Un’eventuale annessione formale della Cisgiordania, così come l’attuazione della ‘riviera’ di Gaza, avrebbero conseguenze immediate sul piano regionale. La Giordania teme nuove pressioni demografiche e destabilizzazione interna, che rischierebbero di trasformare il già fragile Regno hashemita in una ‘Palestina alternativa’ per effetto delle prevedibili ondate di rifugiati provenienti dalla Cisgiordania. Da parte sua, l’Egitto considera l’ipotesi di un esodo verso il Sinai una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale, con potenziali ripercussioni sociali, politiche ed economiche dirompenti, in un contesto già segnato da instabilità interne e minacce jihadiste.
Tra i Paesi firmatari degli accordi di Abramo, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrain si troverebbero dinanzi a un dilemma difficile da affrontare: preservare la cooperazione strategica con Israele o assecondare la pressione di opinioni pubbliche ostili e storicamente solidali con la causa palestinese. È probabile che una mossa unilaterale porti al congelamento, se non alla sospensione, di alcune forme di collaborazione – specie sul piano economico-commerciale, meno sul versante propriamente strategico. In questa ottica è da segnalare la peculiare posizione emiratina: un portavoce del ministero degli Esteri ha avvertito Israele che un progetto di sviluppo sotto occupazione permanente senza coinvolgimento palestinese e, soprattutto, l’annessione unilaterale della Cisgiordania, sarebbero delle linee rosse inaccettabili che minerebbero la credibilità stessa dei processi di normalizzazione in corso con Tel Aviv.
Ad ogni modo, la postura regionale di Israele, soprattutto nell’ultimo biennio, si è distinta per muoversi oltre la sola logica degli accordi di Abramo. Come dimostrato dalla guerra dei dodici giorni contro l’Iran (13-25 giugno 2025) e dall’attacco di Doha (9 settembre) nei confronti della leadership di Hamas, Tel Aviv puntare a ridefinire gli equilibri mediorientali ben al di là del quadro delle mere ‘normalizzazioni’. L’operazione, infatti, risponde a esigenze più ampie, fondate su una visione unilaterale delle relazioni regionali (e internazionali), in cui i Paesi arabi rischiano di dover assecondare i desiderata israeliani anche su pressione statunitense. Washington, sostenendo senza riserve l’attacco di Tel Aviv contro Iran e Qatar, ha peraltro consumato quel residuo di credibilità che ancora poteva vantare agli occhi dei partner arabi, in particolare nel Golfo. È evidente che una tale prospettiva diventerebbe politicamente insostenibile e pericolosa per la legittimità e la stabilità di tutti i governi regionali: non solo per i Paesi firmatari degli accordi di Abramo, ma anche e soprattutto per un attore chiave come l’Arabia Saudita, che ambiva alla normalizzazione con Israele per vedersi riconosciuto un ruolo di leadership politica oltre che morale in Medio Oriente. In uno scenario siffatto, player come l’Arabia Saudita stessa, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero dunque essere spinti a ripensare sensibilmente il valore e il peso attribuiti alle relazioni strategiche con Israele e Stati Uniti, in favore di un maggiore engagement (seppur tattico) con Russia, Cina, Iran e Turchia.
Senza un’opposizione, quanto meno formale, alle ambizioni di Tel Aviv, nel mondo arabo prevarrebbe una narrazione secondo la quale gli Stati del Golfo avrebbero colpevolmente favorito una ‘nuova Nakba’. Ciò alimenterebbe il rischio di una nuova ondata di radicalizzazione, rafforzando gruppi islamisti e reti jihadiste che potrebbero presentarsi come uniche interpreti autentiche della resistenza palestinese. In questo modo, l’annessione e l’occupazione non soltanto incrinerebbero l’architettura della normalizzazione che poggia sugli accordi di Abramo, ma potrebbero riaprire una stagione di instabilità sistemica in tutto il Medio Oriente e, di riflesso, anche in Occidente per il supporto diretto fornito a Israele in tali operazioni.

Dimensione internazionale e fratture occidentali
Sul piano internazionale l’annessione si colloca in un contesto critico, segnato da numerose tensioni diplomatiche tra Israele e alcuni Paesi occidentali, che in assenza di concrete prospettive di una cessazione delle ostilità hanno deciso di riconsiderare il livello del proprio sostegno politico e militare a Tel Aviv. Inoltre, ad ampliare la forbice del dissenso verso lo Stato israeliano vi sono le azioni concrete mosse dalla giurisprudenza internazionale: l’opinione consultiva della Corte internazionale di giustizia del luglio 2024 ha ribadito l’illegalità della presenza israeliana nei Territori occupati, invitando gli Stati a non riconoscerne né a sostenerne la permanenza. La Corte penale internazionale ha emesso da tempo mandati di arresto nei confronti dei membri dell’establishment politico-militare israeliano. Alle Nazioni unite, il Consiglio di sicurezza è paralizzato dai veti statunitensi, mentre in seno all’Assemblea generale cresce la condanna internazionale nei confronti delle politiche condotte da Israele. Questo divario mina la credibilità del sistema multilaterale e accentua la percezione di un’ONU incapace di gestire le crisi in cui sono coinvolti gli USA o i loro alleati.
All’interno dell’Occidente, le divisioni rimangono comunque profonde, con Washington che resta ancorata alla difesa di Israele e contraria a qualunque riconoscimento definito «prematuro» della Palestina. L’Unione europea, invece, appare divisa al suo interno: dopo i riconoscimenti di Spagna, Irlanda e Slovenia, altri Paesi (Francia, Belgio e Regno Unito) hanno annunciato l’intenzione di fare lo stesso (a livello extraeuropeo si sono mossi in tale direzione Canada e Australia). Questa scelta è motivata sia dalla pressione delle rispettive opinioni pubbliche nazionali, sensibili alla dimensione umanitaria della crisi, sia dalla consapevolezza che un’iniziativa politica forte potrebbe restituire centralità all’Europa nello scenario mediorientale. Al contrario, Germania e Italia mantengono un approccio più prudente. Entrambi i Paesi escludono nel breve periodo un riconoscimento formale dello Stato palestinese e privilegiano una strategia fondata su tregue umanitarie, sostegno finanziario limitato e rilancio graduale del processo politico. Tali posizioni riflettono, da un lato, la volontà di preservare il rapporto privilegiato con Israele e con gli Stati Uniti; dall’altro, il timore che un riconoscimento unilaterale possa irrigidire ulteriormente le posizioni di Tel Aviv e ridurre i già compromessi spazi di manovra diplomatica.
In definitiva, l’inazione del Consiglio di sicurezza, l’attivismo della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale, insieme alle divisioni interne all’Unione europea, evidenziano un quadro di governance globale di stampo liberale frammentato e incapace di esercitare pressioni efficaci su Israele. L’annessione o l’occupazione prolungata della Striscia rischierebbero di esasperare queste fratture, consolidando, specie nel cosiddetto Sud globale, la percezione di un Occidente diviso e incapace di proporre una strategia condivisa per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Fonte: Wikimedia Commons
Conclusioni
Le prossime settimane, dunque, si configurano potenzialmente come un momento di svolta. A Gaza, la prosecuzione della guerra e l’ipotesi della ‘riviera’ accentuano il rischio di una espulsione permanente della popolazione palestinese dai Territori occupati. In Cisgiordania, i piani di annessione consolidano la deriva territoriale, aggravando la crisi dell’ANP e favorendo il rafforzamento dei coloni e del blocco religioso-nazionalista. Sul piano regionale, gli accordi di Abramo rischiano di implodere acuendo lo stato di confusione esistente, mentre su quello internazionale, le divisioni tra USA e UE riflettono la difficoltà dell’Occidente di proporre una linea coerente. La prospettiva che si apre è duplice: o si arrestano i progetti di annessione e occupazione e si riattiva un negoziato credibile verso una soluzione ‘a due Stati’ – anche se non sarebbero chiari i pilastri operativi da cui partire – oppure la saldatura delle crisi di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania rischia di aprire una nuova stagione della questione israelo-palestinese dai connotati non del tutto definibili, tramutando il dossier in un conflitto strutturale e permanente, con implicazioni destinate a influenzare direttamente gli equilibri regionali e globali.
Giuseppe Dentice