La finanza islamica in Turchia: strumento politico o di integrazione sociale?

Poco prima dell’inizio del nuovo anno, la Turchia ha introdotto un importante cambiamento nel proprio sistema amministrativo bancario: una nuova legge secondo cui le indagini sulle istituzioni della cosiddetta “free interest finance” – ovvero la finanza islamica – devono essere svolte in conformità con i precetti coranici. Questa legge, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 14 dicembre 2019, obbliga gli ispettori contabili ad attenersi alle regole della giurisprudenza islamica e ad agire “come se Dio li stesse osservando”. Di conseguenza, un atto contrario alle leggi coraniche, seppur legittimo secondo le regole dell’economia di mercato, è ora da considerarsi illegale. Per la prima volta nella storia dello Stato repubblicano turco, le leggi islamiche sono dunque entrate a far parte della sfera pubblica. Questa legge rappresenta un cambiamento significativo nel quadro normativo – e potenzialmente anche nel contesto socio-politico – della Turchia, che sembra ormai da tempo essersi avviata lungo un percorso che l’allontana sempre di più dal modello di Stato laico introdotto dal suo padre fondatore, Mustafa Kemal Atatürk.

Negli anni, la Turchia ha progressivamente aumentato il numero di Participation Banks, le banche specializzate nella finanza islamica. Attualmente se ne possono contare almeno sei: Ziraat Katılım Bankası A.Ş., Vakıf Katılım Bankası A.Ş., Bank Asya, Asya Katılım Bankası A.Ş., Türkiye Finans Katılım Bankası A.Ş., Albaraka Türk Katılım Bankası A.Ş. e Kuveyt Türk Katılım Bankası A.Ş. La nuova legge sembra destinata ad ampliare ulteriormente l’importanza di questo tipo di istituti all’interno dell’economia turca. Il mercato rappresentato dai settori legati all’economia islamica ha una base potenziale di 1,8 miliardi di clienti e già nel 2015 il suo valore ha superato i 2 miliardi di dollari, con tassi di crescita esponenziali, finora a doppia cifra.

Il sistema bancario islamico (halal, quindi lecito secondo la dottrina coranica) è nato negli anni Sessanta, ma ha raggiunto l’apice dopo lo shock petrolifero del 1973, quando l’aumento del prezzo del petrolio ha spinto i paesi arabi produttori di idrocarburi, in particolare l’Arabia Saudita, a trovare una nuova fonte di investimento per le proprie rendite. Nasce proprio in quell’anno l’Islamic Development Bank, con sede a Gedda, un istituto finanziario intergovernativo con il principale obiettivo di promuovere lo sviluppo usando strumenti finanziari islamici e l’integrazione economica tra i 56 Stati membri.

La finanza islamica è basata sul principio di convivenza tra economia ed etica. In base a questa dottrina il comportamento economico di ciascun individuo non deve essere guidato dalla mera massimizzazione del guadagno economico e dal consumo personale, ma deve invece essere volto al benessere dell’intera comunità musulmana (Umma). Dal momento che, secondo la sharia, l’uomo non è altro che il vicario (wakil) di Dio sulla Terra e il suo compito è quindi quello di realizzare il volere divino, l’azione umana deve tendere verso la promozione della solidarietà sociale in ogni ambito.  Secondo quest’ottica l’economia capitalista deve dunque essere fortemente rigettata, in quanto animata dai principi di individualismo e competitività, e destinata a incrementare la disuguaglianza sociale. Di contro, il modello della finanza islamica dovrebbe seguire i principi di fratellanza e giustizia, assicurando una redistribuzione equa delle risorse e promuovendo una visione pluralistica del benessere. Infatti, dal momento che, nella visione islamica, l’uomo è solo l’affidatario delle risorse terrestri, queste devono essere amministrate in modo da assicurare benefici per tutti, anche e soprattutto per le generazioni future. In questo senso, non si può parlare di vero e proprio sviluppo se la massimizzazione dell’utilità è perseguita a danno di altri soggetti, in particolare delle persone più povere. È il principio del bene comune che deve guidare l’agire economico, cosicché tutti gli individui che contribuiscono ai processi produttivi, anche se in misura e a titolo diverso, possano godere equamente dei benefici da essi derivanti.

Questo quadro morale e normativo costituisce la spina dorsale della finanza islamica, da cui deriva in particolare il divieto di addebitare interessi (riba), considerati una forma di usura. Di conseguenza, dal momento che i precetti islamici assumono che non possa esserci alcun tipo di guadagno senza una condivisione del rischio, il ricorso all’interesse è sostituito da forme contrattuali partecipative (PLS, Profit-and-Loss Sharing), basate sulla compartecipazione ai profitti e alle perdite del debitore. Dal momento che la banca non può trarre guadagno tramite la riscossione degli interessi, esistono diversi servizi finanziari ad hoc che permettono agli istituti islamici di assicurarsi un flusso continuo di guadagno. Tali strumenti consistono nei contratti non partecipativi, come il bay’ al-murabaha (vendita a premio fisso): un istituto di credito acquista un determinato bene per conto di un cliente e lo rivende allo stesso ad un prezzo rincarato, comprensivo del margine di profitto della banca. Secondo la finanza islamica, dunque, il denaro non può di per sé generare altro denaro – attraverso pagamenti di interessi o semplicemente perché è stato depositato in banca – ma è solo un mezzo di scambio che non ha valore intrinseco. Perciò, per aumentare, la ricchezza deve essere investita in attività concrete e produttive, come per esempio gli immobili o altri asset reali. A questo scopo, negli anni Novanta, sono nate le obbligazioni sukuk che, incorporando una porzione di diritto sul bene materiale sottostante, generano valore e, al contempo, risultano compatibili con la shari’a.

Un altro pilastro della finanza islamica è rappresentato dalla trasparenza nelle relazioni finanziarie, da cui deriva il divieto di comportamenti speculativi (gharar), e quindi il ricorso a contratti derivati come swap, future, opzioni, e contratti forward. In aggiunta, l’obbligo di beneficenza (zakat) genera un’imposta sui beni mobili e immobili dei musulmani che hanno un’adeguata capacità contributiva. Tale tassa costituisce un obbligo morale e religioso per il fedele ed è volta alla redistribuzione della ricchezza, cosicché anche i più poveri possano godere di standard di vita adeguati.

Negli ultimi anni, questo settore sta guadagnando sempre più successo, e il ricorso a questi istituti si sta espandendo – tra musulmani e non – per una serie di motivi. Da una parte perché risultano più sicuri: il principio di trasparenza e il divieto di comportamenti speculativi hanno fatto sì che le banche islamiche non fossero colpite dalla crisi dei mutui subprime del 2008. Dall’altra, perché i principi etici su cui si fonda la finanza islamica, in particolare la sostenibilità e la responsabilità sociale, permettono di sviluppare, nell’economia reale, attività e servizi che beneficiano tutta la comunità, in particolare gli strati più bisognosi della popolazione. Per questo motivo, la finanza islamica è paragonata alla finanza etica, e attrae investitori socialmente responsabili, interessati cioè, più che alla massimizzazione del profitto, alla certezza di aver impiegato il proprio denaro per la promozione dello sviluppo sociale, nel rispetto di valori morali e/o religiosi.

Tuttavia, nel contesto turco, l’introduzione della nuova legge può essere interpretata non tanto come una norma volta a dare impulso a questo settore della finanza, bensì come un primo passo verso un processo di islamizzazione dello Stato, dal momento che il rispetto dei dettami islamici non è più confinato alla sfera privata, ma viene imposto per la prima volta nella sfera pubblica. Questa tendenza verso l’islamizzazione, oltretutto, non è nuova in Turchia. Già nel 2004, Erdoğan aveva tentato, senza successo, di criminalizzare l’adulterio. Ha avuto invece un esito positivo il processo di islamizzazione dell’apparato scolastico: molte madrasat sono state convertite in Imam Hatip, istituti scolastico-religiosi destinati a formare la nuova generazione di burocrati turchi. Seppur ancora allo stadio iniziale, questa tendenza a integrare i valori dell’islam politico all’interno del quadro istituzionale nazionale rischia di minacciare i valori laici del modello repubblicano di Atatürk, sostituendoli progressivamente con quelli religiosi.

Melania Malomo