Il gas del Golfo e gli equilibri mediorientali

Il gas è una risorsa energetica che negli ultimi anni ha acquistato una crescente importanza, sia dal punto di vista industriale sia in termini geopolitici. Per quanto riguarda il primo aspetto, questa risorsa appare centrale per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica, e per effettuare un’efficiente transizione energetica nell’ottica di un progressivo affrancamento dal petrolio. Il gas, infatti, presenta notevoli vantaggi rispetto al petrolio, quali il ridotto impatto ambientale e la stabilità delle forniture, oltre a una relativa abbondanza in termini di riserve. Dal punto di vista geopolitico, invece, il settore ha già prodotto effetti considerevoli. Ad esempio, i recenti accordi russo-turchi, che hanno portato all’inaugurazione del gasdotto TurkStream che attraversa il Mar Nero, e la triplice intesa tra Grecia, Cipro e Israele, volta alla costruzione e al compimento del progetto EastMed – basato sulla scoperta da parte di Eni di diversi giacimenti di gas sulle coste del Levante – hanno contribuito significativamente a influenzare il sistema di equilibri nel Mediterraneo orientale.

EastMed, in particolare, trova il suo scopo anche, se non soprattutto, nell’ottica di un contenimento della progressiva espansione turca nel Mediterraneo, esemplificata dalla cosiddetta visione Mavi Vatan (“Patria blu”), che ipotizza l’appartenenza alla sfera di influenza di Ankara dell’intera parte settentrionale del Mediterraneo orientale, secondo la Turchia parte della piattaforma continentale turca. Gli accordi di dicembre con il governo libico guidato da Fayez al-Serraj (con sede a Tripoli e riconosciuto dalle Nazioni unite) per una zona economica speciale turco-libica sono parte integrante di questa visione promossa dal governo di Ankara. EastMed è dunque anche espressione di un’intesa anti-turca fra Cipro, Grecia, e Israele, così come il TurkStream rappresenta un riavvicinamento russo-turco, malgrado Ankara e Mosca sostengano spesso parti contrapposte nei vari teatri di crisi regionale, come in Siria e nella stessa Libia.

L’influenza del gas nelle relazioni fra potenze regionali è esemplificata anche più chiaramente dal decennale riavvicinamento tra Iran e Qatar, uno sviluppo che ha portato alla crisi dei rapporti diplomatici fra quest’ultimo e il resto dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo. Una ragione fondamentale di questo riavvicinamento è rappresentata proprio dalla presenza del più grande giacimento di gas al mondo – il South Pars/North Dome field – che si trova in una zona marittima la cui sovranità è condivisa dall’Iran e dal Qatar. Con un’estensione di quasi 10 mila chilometri quadrati, il giacimento, scoperto negli anni Settanta, ha progressivamente portato i due paesi a una collaborazione obbligata. Il gas va quindi letto in tutta la sua importanza sia in chiave energetica che in chiave geopolitica.

Date queste premesse, appare estremamente interessante la recente notizia della scoperta, proprio da parte di Eni, di un giacimento di gas nell’on-shore dell’Emirato di Sharjah, una delle unità costitutive degli Emirati arabi uniti, in seguito all’ottenimento da parte della multinazionale italiana del primo round di licenze esplorative promosse dal Petroleum council di Sharjah. Il giacimento – denominato Mahani-1 – “avrebbe una portata di flusso di quasi 50 milioni di piedi cubi al giorno”, ovvero 1,4 milioni di metri cubi, sulla base di un test condotto da Eni a seguito della scoperta. Questo avvenimento, inoltre, è stato seguito da un’ulteriore scoperta, avvenuta lo scorso febbraio, di un secondo giacimento, off-shore anche più esteso – nei pressi di Jebel Ali, al confine fra gli Emirati di Abu Dhabi e Dubai – da parte della compagnia energetica nazionale emiratina Abu Dhabi National Oil Co. (Adnoc). Il giacimento “si estende per ben 5.000 chilometri quadrati, e si stima che contenga fino a 80 trilioni di piedi cubi di gas naturale.”

Il giacimento South Pars.
Fonte: Wikimedia Commons.

Ancora una volta, si può stimare che le conseguenze di queste scoperte saranno notevoli per ambedue gli aspetti finora presi in considerazione, quello economico e quello geopolitico. Per quanto riguarda la sfera economica, appare chiaro quanto questi nuovi giacimenti andranno a favorire la politica di diversificazione portata avanti dagli Eau negli ultimi anni. Gli Emirati hanno sempre più cercato di affrancare la loro strategia di sviluppo economico dalla risorsa petrolifera, e in tal senso, hanno investito significativamente in settori quali il turismo, l’industria finanziaria, il trasporto aereo e, ancor maggiormente, nelle fonti di energia rinnovabili o comunque alternative al petrolio. In questo senso va letta la Energy Strategy per il 2050 annunciata da Abu Dhabi nel 2017. Essa consiste in un piano che dovrebbe portare nel 2050 il panorama energetico emiratino a essere costituito “per il 44% da energia pulita, per il 38% da gas, per il 12% da carbone e per il 6% da nucleare, con la speranza di ridurre il carbon footprint del 70%.” Le recenti scoperte vanno dunque chiaramente nella direzione auspicata dal governo di Abu Dhabi quasi tre anni fa, a seguito della quale sono stati intrapresi investimenti di quasi 160 miliardi di dollari.

Le ragioni sottostanti a questa esigenza di diversificazione economica sono varie, ma possono essere ricondotte essenzialmente all’instabilità del settore petrolifero, soggetto a repentine variazioni di prezzo, causate dall’instabilità del Medio Oriente e, più recentemente, dall’accresciuta indipendenza energetica degli Stati Uniti – per anni il principale acquirente delle risorse petrolifere emiratine e del Golfo – che proprio sul gas, estratto tramite la tecnica del fracking, hanno investito per raggiungere una forma di autosufficienza. Con queste recenti scoperte, quindi, gli Emirati fanno un decisivo passo in avanti verso gli obiettivi di diversificazione energetica.

Le conseguenze geopolitiche di questo avvenimento sono invece più difficili da definire. Si potrebbe pensare che, così come il gas ha portato a un riavvicinamento russo-turco, malgrado le posizioni contrapposte dei governi di Mosca e Ankara in diversi scenari, esso potrebbe avere lo stesso effetto nell’area del Golfo, come dimostrato dal caso qatarino-iraniano. Tuttavia, è difficile che ciò avvenga, in quanto i casi citati in precedenza presentano caratteristiche assenti nel contesto emiratino. Infatti, sia per il caso turco-russo che per quello qatarino-iraniano, la spinta alla collaborazione è stata dettata dalla necessità di esportare il gas tramite gasdotti che, necessariamente, attraversano acque o territori appartenenti alla controparte. Nel caso del South Pars/North Dome field, il giacimento stesso si trova esattamente al confine fra le acque territoriali del Qatar e dell’Iran. Nel caso emiratino, al contrario, i giacimenti ricadono interamente nel territorio nazionale. Inoltre, la scoperta del gas rappresenta per Abu Dhabi un passo verso un’accresciuta indipendenza energetica proprio nei confronti del Qatar, il più grande fornitore di gas degli Emirati – tramite il gasdotto Dolphin – malgrado la crisi diplomatica iniziata nel 2017 e tutt’ora in corso. La risorsa è dunque destinata a soddisfare la domanda interna e non, come nei casi citati, il mercato estero. Una futura autosufficienza emiratina potrebbe dunque portare, nel medio periodo, a un ulteriore irrigidimento delle posizioni degli Eau nelle numerose questioni che li vedono in netta contrapposizione con il Qatar e l’Iran. In questo caso il gas – invece di portare a una distensione geopolitica o a una non-belligeranza di convenienza, come avvenuto in altri contesti – rischia di avere l’effetto opposto, ovvero di favorire un inasprimento del conflitto fra il solido asse saudita-emiratino e quello rappresentato da Qatar e Iran, che va via via rafforzandosi.

Francesco Felle