Verso Sharm el-Sheikh. Analisi critica del piano Trump per Gaza

Il 9 ottobre potrebbe rappresentare una data simbolica o, forse, un vero e proprio spartiacque in uno dei conflitti più sanguinosi della storia recente del Medio Oriente. A due anni dall’inizio della guerra a Gaza e dal conseguente mutamento degli equilibri geopolitici regionali, Israele e Hamas si trovano di fronte a una scelta cruciale: accettare la sfida del negoziato internazionale oppure ostacolarne l’attuazione, con il rischio di alimentare una nuova spirale di violenze.

A imprimere forza a questo passaggio non è stata soltanto la presidenza degli Stati Uniti, che rivendica il merito principale dell’iniziativa, ma anche un ampio fronte di Paesi arabi o musulmani – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Giordania, Turchia, Pakistan e Indonesia – che hanno intensificato gli sforzi diplomatici a sostegno del piano in 20 punti per il futuro della Striscia di Gaza presentato il 29 settembre da Donald Trump alla Casa Bianca alla presenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Donald Trump alla Casa Bianca con Benjamin Netanyahu. Fonte: Flickr.com

Lo stato dell’arte a livello umanitario

Il negoziato oggi in corso è tuttavia anche il risultato di due anni di conflitto a Gaza e nella regione; un conflitto le cui eredità politiche, economiche e securitarie restano difficilmente calcolabili, così come il grado di devastazione e gli impatti umanitari sulla popolazione palestinese dell’enclave.

Secondo i dati delle Nazioni unite, la distruzione nella Striscia è quasi totale: il 78% degli edifici è stato raso al suolo, insieme all’88% delle attività commerciali e industriali. Quasi la metà degli ospedali ha cessato di funzionare, mentre quelli ancora operativi risultano gravemente danneggiati dagli attacchi delle Forze di difesa israeliane (Israel Defense Forces – IDF). L’82% del territorio è ormai inagibile a causa dei detriti e dei ripetuti ordini di evacuazione imposti dall’esercito di Tel Aviv. Anche i sistemi educativo e sanitario sono al collasso: il 92% degli edifici scolastici (518 su 564) necessita di una ricostruzione totale e, per il terzo anno consecutivo, oltre 660.000 studenti restano senza accesso all’istruzione. Quasi tutte le strutture sanitarie sono gravemente danneggiate o distrutte, molte sono state costrette a cessare le attività, mentre quelle che restano operative hanno capacità estremamente ridotte e spesso limitate alle emergenze.

Sul piano umanitario, la catastrofe è evidente. Secondo stime (per difetto), circa 70.000 palestinesi sono stati uccisi e più di 169.000 feriti. Tra le vittime, l’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli Affari umanitari (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, OCHA) segnala circa 20.000 bambini, 373 membri del personale ONU, 4 operatori della Croce rossa internazionale, 54 della Mezzaluna rossa palestinese, 1.722 tra medici e operatori sanitari, 139 membri della protezione civile, 247 giornalisti e 543 operatori umanitari, di cui 8 internazionali.

Se lo stato dell’arte descrive, dunque, un quadro umanitario tra i più gravi della storia recente per la regione, la proposta statunitense oggi in vigore mira ad affrontare in maniera organica tutti gli elementi critici, nel tentativo di impedire una recrudescenza della violenza o, peggio ancora, una ripresa su larga scala del conflitto nella Striscia di Gaza.

Un bambino sfollato viene vaccinato contro la poliomielite nel campo profughi di al-Shati a Gaza. Fonte: Wikimedia Commons

I quattro pilastri del piano

La proposta Trump si articola in quattro pilastri fondamentali:

  1. Sicurezza. Cuore del progetto e punto nevralgico per le fasi successive. Questo passaggio prevede uno scambio di ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi, il ritiro graduale delle forze israeliane, lo smantellamento delle milizie armate operanti a Gaza (con particolare attenzione a Hamas), l’istituzione di una Forza internazionale di stabilizzazione (International Stabilization Force, ISF) per presidiare confini e valichi e prevenire nuove escalation.
  2. Ricostruzione economica e sociale. Dopo anni di assedio e devastazioni, il piano promette di riattivare i servizi essenziali – elettricità, acqua, scuole, ospedali – e di promuovere programmi di investimento e occupazione. L’obiettivo dichiarato è ridurre marginalità ed esclusione sociale, il tutto accompagnato da controlli stringenti sugli aiuti per impedirne l’uso da parte dei gruppi armati.
  3. Governance istituzionale. La gestione della Striscia dovrebbe essere affidata a un comitato tecnico e apolitico, supervisionato da un «Board of Peace» internazionale presieduto da Trump, con la partecipazione di personalità di rilievo, tra cui Tony Blair. Questo organismo dovrebbe coordinarsi con le Nazioni unite e la società civile, gestendo la transizione in attesa di un eventuale reintegro a Gaza dell’Autorità nazionale palestinese (ANP), il cui ruolo resta comunque non chiaramente delineato.
  4. Cooperazione internazionale e regionale. Stati Uniti, Egitto e Giordania sono chiamati a svolgere un ruolo centrale nell’addestramento delle forze di polizia palestinesi e nel sostegno all’ISF, mentre altri Paesi arabi ed europei dovrebbero fornire risorse e competenze tecniche alla governance futura dell’area. L’intento è costruire un impegno multilaterale che eviti l’isolamento del progetto e ne rafforzi la sostenibilità.

Rispetto alle precedenti proposte più massimaliste (come ad esempio quella di ‘riviera’ a Gaza), e ricercando una maggiore continuità con altre idee del recente passato (come quelle promosse un anno fa dall’amministrazione Biden), il piano Trump introduce alcune novità rilevanti: esclude, seppur non del tutto, l’ipotesi di un trasferimento forzato dei palestinesi verso Paesi terzi – ma questo passaggio critico rimane sfumato nelle pieghe diplomatiche del testo –, non contempla (almeno temporaneamente) l’annessione della Striscia da parte di Israele e lascia intravedere un ruolo, seppur marginale, dell’ANP. Sono segnali deboli ma significativi, che hanno impedito qualsiasi prospettiva di annessione de facto israeliana, rassicurando i partner arabi sulle ambizioni di statualità palestinese.

Nel momento in cui si scrive, Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo sul primo pilastro. È stata concordata una tregua, con la sospensione delle operazioni militari (benché queste siano proseguite a Khan Younis e nella città di Gaza), il ritiro delle forze israeliane entro una buffer zone lungo i confini perimetrali dell’enclave palestinese (conservando un controllo territoriale pari al 53%) e l’ingresso giornaliero di 400-600 camion di aiuti umanitari (soprattutto cibo, acqua e medicine) dal valico di Rafah sotto diretta gestione delle agenzie ONU. L’intesa prevede, inoltre, la liberazione di 48 ostaggi israeliani (di cui 20 ancora vivi) e il rilascio da parte di Tel Aviv di 1.950 palestinesi (250 ergastolani e oltre 1.700 gazawi detenuti senza processo dopo il 7 ottobre).

Nonostante l’accordo vigente, permangono ostacoli di diversa natura, quali la difficoltà geografica legata alla precisa localizzazione e individuazione delle salme; la gestione delle procedure di rilascio degli ostaggi detenuti da milizie non direttamente riconducibili ad Hamas (alcuni prigionieri israeliani sono infatti nelle mani delle Brigate Izzedin al-Qassam – braccio armato del movimento islamico –, di gruppi del Jihad islamico palestinese o, più semplicemente, di bande criminali); le divergenze sui prigionieri palestinesi da liberare, alcuni dei quali rimarranno verosimilmente nelle carceri israeliane (tra cui figurano i nomi simbolici di Marwan Barghouti e Ahmad Saadat, ma anche quelli di Hassan Salameh e Abbas al-Sayed, importanti comandanti delle Brigate Izzedin al-Qassam). Per queste ragioni, il limite temporale delle 72 ore dall’entrata in vigore della tregua per il completamento di tali operazioni rischia evidentemente di non essere rispettato.

A Los Angeles, un poster con i volti degli ostaggi rapiti da Hamas e da altri gruppi e milizie palestinesi. Fonte: Wikimedia Commons

Le sfide aperte e le fragilità strutturali

Superata questa fragile fase preliminare, il negoziato dovrà affrontare le questioni più complesse: la stabilizzazione militare, la ricostruzione economica e sociale, la definizione della governance, il futuro politico di Hamas e il ruolo dei partner regionali.

Tra tutti i punti critici, il nodo principale riguarda la prospettiva che Hamas accetti il disarmo e rinunci al proprio ruolo politico. Una condizione che appare poco probabile e tra i nodi più difficili da sciogliere. Il movimento potrebbe concedere alcune aperture tattiche, ma difficilmente rinuncerà alla sua identità di soggetto percepito – almeno da una parte non marginale della popolazione palestinese – come forza di ‘resistenza’, se non attraverso una parziale trasformazione politica. Gli elementi più radicali potrebbero ottenere un’amnistia o salvacondotti verso l’estero (in particolare verso Qatar o Turchia), ma la questione rimane irrisolta. All’interno del movimento islamista convivono anime diverse, con la componente più pragmatica e politica che sarebbe disposta a un’operazione di ‘ripulitura dell’immagine’, sulla falsariga di quanto fatto da Ahmed al-Shara’a in Siria, per ristrutturarsi e sopravvivere sotto altra forma nel futuro assetto palestinese. Viceversa, l’anima militare rimane più oltranzista e radicale, e sarebbe pronta anche a riprendere le armi con l’obiettivo di cristallizzare il conflitto al fine di scalzare definitivamente il bureau politico dal potere a Gaza. Un fronte di lotta che inevitabilmente si apre, inoltre, a un ampio e variegato spettro di attori che operano nella Striscia: dal Jihad islamico palestinese ai potenti clan tribali (come i Doghmush, i Majayda, i Barbakh o gli Astal), fino a varie milizie armate (come le Forze popolari guidate da Yasser Abu Shabab) e bande criminali comuni (molte delle quali legate alle tribù beduine dei Tarabin, attive nei traffici illeciti di droga e armi dal Sinai a Gaza). Una contraddizione strutturale che rischia di sfociare in guerre intestine o in vere e proprie rese dei conti, rendendo impossibile la stabilizzazione dell’area e minando la già precaria architettura del piano Trump. Paradossalmente, tale processo non può avviarsi senza il coinvolgimento di Hamas stessa sin dalle prime fasi della transizione.

Un corridoio della fitta rete di tunnel sotterranei della Striscia di Gaza, attraverso cui venivano condotti traffici illeciti. Tale rete è stata parzialmente distrutta da Israele durante le operazioni belliche. Fonte: Wikimedia Commons

Un altro ostacolo alla stabilizzazione potrebbe giungere dall’incertezza intorno al ritiro israeliano dalla Striscia, che non prevede scadenze vincolanti. In assenza di un calendario chiaro, le IDF sembrano destinate a mantenere il controllo di ampie aree, mentre permangono ambiguità sul destino delle milizie palestinesi cooptate da Israele e sulle modalità di intervento della ISF. Proprio questa novità stabilita dal piano Trump dovrebbe giocare un ruolo cruciale, in quanto tale forza sarebbe chiamata a garantire la sicurezza dell’area dopo il ritiro israeliano, monitorare i confini, prevenire nuove minacce, proteggere i civili e addestrare le forze di polizia locali. La task force internazionale sarà guidata da un generale statunitense e opererà in un quadro più ampio che include non solo Gaza ma anche le aree limitrofe. Nella fase iniziale, tuttavia, i militari USA resteranno dislocati in Israele, con funzioni di supporto logistico, comando e coordinamento. A queste missioni operative si aggiunge un obiettivo politico sensibile: favorire una transizione stabile, la cui concreta definizione resta però incerta per le tensioni e i contrasti sopra menzionati.

La piena operatività della ISF rischia, però, di essere indebolita dalle divergenze tra gli attori regionali e internazionali coinvolti, ciascuno dei quali rivendica per sé un ruolo di primo piano. L’Egitto punta a utilizzare il meccanismo per riaffermare la propria centralità regionale e garantire la sicurezza dei propri confini; Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita intendono sostenere finanziariamente la missione, ma mirano a esercitare influenza politica e diplomatica già dalla conferenza di Sharm el-Sheikh (13 ottobre). Da questo assetto, al momento, resta esclusa la Turchia, nonostante il ruolo svolto nelle trattative. Ankara ha incontrato la netta opposizione di quasi tutte le capitali regionali, preoccupate da un suo eccessivo protagonismo e dalle crescenti tensioni con Israele in Siria. Un ruolo di supporto all’Egitto potrebbe invece arrivare dall’Indonesia, desiderosa di rafforzare la propria visibilità internazionale.

Gli attori europei appaiono più defilati, anche se Francia e Italia tentano di ritagliarsi spazi di influenza grazie all’esperienza maturata nelle missioni di peacekeeping, in particolare in Libano (United Nations Interim Force in Lebanon, UNIFIL). Parigi, in coordinamento con il Cairo, ha proposto misure per la messa in sicurezza degli arsenali e ha confermato la disponibilità del Paese a partecipare alla forza multinazionale. Dal canto suo, Roma ha offerto un contingente di circa 200 carabinieri sotto egida ONU e sostiene la riattivazione della missione EUBAM (EU Border Assistance Mission) per il monitoraggio del valico di Rafah.

Parallelamente, il forte grado di controllo internazionale e il protagonismo diretto attribuito a Trump rischiano di essere percepiti come una forma di commissariamento dagli evidenti tratti neocoloniali, difficilmente accettabili da ampie fasce della società palestinese e mediorientale. L’attuazione del piano richiede infatti un impegno politico, diplomatico ed economico enorme, presupponendo una leadership internazionale costante e la disponibilità di Israele ad accettare vincoli esterni – condizioni tutt’altro che scontate. Non sorprende, quindi, che lo stesso Egitto abbia espresso riserve, temendo che il piano finisca per rafforzare Israele più che promuovere la sovranità palestinese.

Ciò rinvia alla questione cruciale della governance. Affidare la gestione della Striscia a un comitato tecnico sotto supervisione internazionale potrebbe garantire una certa neutralità, ma rischia al tempo stesso di indebolire ulteriormente l’Autorità nazionale palestinese, già fragile e delegittimata. Una simile impostazione finirebbe per consolidare la separazione politica tra Gaza e Cisgiordania, allontanando ulteriormente la prospettiva di uno Stato palestinese unitario. Subordinare la riforma istituzionale e la ricostruzione alla prospettiva – ancora ipotetica – di un futuro negoziato sulla statualità palestinese significherebbe, inoltre, accentuare la dipendenza da Washington, che manterrebbe un ruolo predominante nella gestione della transizione.

Restano infine aperti altri punti critici che pesano sulla credibilità del piano. Non è chiaro quanto delle misure previste sarà effettivamente attuato, né in quali tempi. È incerto anche se le autorità locali di Gaza disporranno di reali poteri o se continueranno a essere sottoposte a una rigida supervisione esterna. A ciò si aggiungono le pressioni e interferenze degli attori regionali e internazionali, che rischiano di trasformare l’intesa in una gestione eterodiretta. Solo un impegno chiaro a limitarle potrà garantire che l’iniziativa evolva da semplice cornice diplomatica a percorso credibile di stabilizzazione e autodeterminazione.

In definitiva, il futuro della Striscia di Gaza e il successo dell’iniziativa USA dipenderanno dalla capacità dei negoziatori di bilanciare sicurezza, rappresentanza, stabilità e inclusione.

Il logo della conferenza di Sharm el-Sheikh. Fonte: State Information Service

Un primo bilancio complessivo

Il piano Trump per Gaza si presenta come un progetto ambizioso e articolato, che intreccia dimensioni militari, politiche ed economiche, introducendo alcuni elementi di discontinuità rispetto ai precedenti tentativi di mediazione grazie a un approccio più pragmatico, soprattutto nella fase iniziale. Tuttavia, esso poggia su presupposti fragili e rischia di scontrarsi con gli stessi ostacoli che hanno storicamente paralizzato ogni processo negoziale in Medio Oriente.

A partire dalla volontà – o dalla reale disponibilità – dei protagonisti di voler giungere a un’intesa. Per ragioni differenti, Hamas e Israele mantengono atteggiamenti speculari di apparente apertura, alternandoli con momenti di flessibilità e dichiarazioni di netta chiusura. Tali oscillazioni riflettono non solo strategie tattiche, ma anche le pressioni interne e le divisioni politiche cui entrambi gli attori devono rispondere. In questo contesto, la sfida per i mediatori sarà quella di evitare che le trattative si impantanino in un limbo di ambiguità e di intenzioni contrapposte, alimentate tanto dalla retorica quanto dai calcoli politici.

Tuttavia, una visione integrata ma priva di garanzie vincolanti, di un autentico coinvolgimento palestinese, di un reale cambio di passo da parte di Israele e di un impegno multilaterale stabile, rischia di trasformarsi nell’ennesima occasione perduta. In questa prospettiva, la tregua in corso, il parziale ritiro delle truppe israeliane e la liberazione degli ostaggi suggeriscono prudenza, ma anche un cauto ottimismo in vista degli incontri di Sharm el-Sheikh. I prossimi sviluppi richiederanno settimane, se non mesi, e potranno delinearsi con maggiore chiarezza solo dopo il vertice previsto in Egitto. In caso contrario, Gaza rischierebbe di trasformarsi nuovamente nell’epicentro di una conflittualità cronica, alimentando instabilità e tensioni di lungo periodo.

Giuseppe Dentice