Il dossier libico continua a rappresentare una delle principali direttrici della proiezione di potenza della Turchia nel Mediterraneo. Dopo anni di sostegno incondizionato ai governi di Tripoli, culminati nell’intervento del 2019-2020 che ha ribaltato le sorti del conflitto contro l’avanzata delle forze orientali, Ankara sembra ora orientata verso una rimodulazione strategica della propria postura. La progressiva apertura di Recep Tayyip Erdoğan al blocco orientale della Libia, e in particolare alla figura del generale Khalifa Haftar, segna un cambio di paradigma che va letto anche alla luce di una più ampia revisione degli equilibri regionali. Infatti, tale apertura si inscrive in un contesto geopolitico caratterizzato dal riassetto delle alleanze, dalla crescente competizione energetica nel Mediterraneo orientale e dalla volontà turca di consolidare una presenza multilivello – diplomatica, economica e militare – in una Libia ancora divisa e instabile, ma strategicamente centrale. Questa nuova ridefinizione delle relazioni turco-cirenaiche non rappresenta solo una mossa tattica, ma si configura, altresì, come parte di un più ampio processo di normalizzazione dei rapporti con gli Stati arabi rivali – in primis Egitto ed Emirati Arabi Uniti – e come tentativo di posizionare la Turchia come attore imprescindibile in ogni scenario futuro di stabilizzazione del paese maghrebino.

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, la Libia è diventata un terreno di competizione per attori regionali e internazionali, attratti tanto dalle risorse energetiche quanto dalla sua posizione geografica strategica. La Turchia, storicamente legata alla Tripolitania per motivi culturali ed economici, ha scelto di intervenire direttamente nel conflitto libico a sostegno del Governo di accordo nazionale (Gan), riconosciuto dalle Nazioni Unite, attraverso un supporto militare che ha incluso l’invio di droni, consiglieri e mercenari siriani. Questo intervento ha avuto l’obiettivo di contenere l’espansione delle forze orientali guidate da Khalifa Haftar, sostenute da Egitto, EAU, Francia e Russia, e di assicurarsi un ruolo centrale nel futuro assetto della Libia. Il Memorandum d’intesa siglato con il Gan nel 2019, riguardante la delimitazione delle Zone economiche esclusive nel Mediterraneo, ha confermato la volontà di Ankara di consolidare la propria presenza nella regione, sfidando direttamente Atene e Nicosia. Tale accordo non solo ha consolidato il supporto militare turco all’esecutivo di Tripoli, ma ha scatenato reazioni forti da parte di Grecia, Cipro, Egitto e altri Stati della regione, che hanno lamentato violazioni del diritto internazionale. Poco dopo, nel gennaio 2020, il Parlamento turco ha approvato la legge che autorizzava la presenza di truppe turche in Libia a sostegno del Gan. Questa mossa ha segnato il punto in cui il coinvolgimento turco è evoluto da mera assistenza militare e diplomatica a una presenza potenzialmente diretta. Il 2020 ha visto anche momenti militari decisivi: il sostegno turco ha permesso al governo allora guidato da Fayez al-Serraj di installare sistemi di difesa aerea e droni che hanno alterato l’equilibrio sul terreno, impedendo ad Haftar di consolidare varie posizioni intorno a Tripoli, in particolare nelle aree dell’ovest e nei pressi della base di al‑Watiya. Infine, va ricordato come la presenza turca non sia stata solo di carattere militare o diplomatico, ma anche finanziaria e istituzionale: un esempio è stato l’accordo tra le banche centrali turca e libica firmato nell’agosto 2020 che mirava a rafforzare la cooperazione nel settore, con lo sguardo rivolto ad un futuro in cui la stabilità politica avrebbe permesso investimenti maggiori in infrastrutture, energia e commesse pubbliche.

Tuttavia, a partire dal 2021, la politica turca ha iniziato a modificarsi. Con il cessate il fuoco raggiunto tra le fazioni rivali e la nascita del Governo di unità nazionale (Gun), presieduto da Abdulhamid Dbeibah, Ankara ha adottato una postura più pragmatica, avviando un graduale processo di apertura verso la Cirenaica e la figura di Haftar, fino a poco tempo prima considerato il principale ostacolo alla stabilizzazione dell’ex colonia italiana. Delegazioni economiche turche hanno iniziato a visitare Bengasi e Tobruch, e sono stati registrati segnali di disgelo anche a livello diplomatico, con la prospettiva di riattivare canali istituzionali e proteggere gli interessi delle aziende turche attive in quella regione. Tra i momenti simbolici e spartiacque nel quadro appena descritto si possono citare alcuni eventi. Nel 2022, Saddam e Belgasem Haftar, figli di Khalifa, hanno visitato Ankara per colloqui non ufficiali con esponenti governativi e militari turchi: la visita aveva l’obiettivo di rassicurare il governo turco sulla nascita del nuovo esecutivo di Tobruch e, indirettamente, di esplorare forme di cooperazione in ambiti come la sicurezza, il commercio e la ricostruzione postbellica. Successivamente, nel dicembre 2023, si è tenuto un incontro tra il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, e il presidente del Parlamento libico, Aguila Saleh, anch’egli espressione dell’est della Libia. Anche in questo caso, il dialogo è stato improntato alla stabilizzazione del paese e alla possibilità di una roadmap condivisa per l’unificazione delle istituzioni libiche. Nell’ottobre 2024, Saddam Haftar – Capo di Stato Maggiore delle Forze Terrestri – ha preso parte alla fiera internazionale dell’industria della difesa, dell’aviazione e dello spazio di Istanbul, dove ha incontrato anche il ministro della Difesa turco Yaşar Güler. Un ulteriore passo è stato compiuto nel novembre 2024, quando il Ministero della Difesa turco ha accolto rappresentanti militari di entrambe le fazioni libiche, orientale e occidentale, durante le riunioni della Commissione militare congiunta 5+5, confermando il crescente ruolo di Ankara come attore chiave nel campo della sicurezza. Per arrivare allo scorso agosto (2025), quando Khalifa Haftar ha ricevuto il capo dell’intelligence turca Ibrahim Kalin nel suo quartier generale di Bengasi, accompagnato da una delegazione militare di alto livello.
Parallelamente, si è aperta una nuova fase di cooperazione economica: imprese turche, soprattutto nel settore delle costruzioni, stanno riattivando progetti infrastrutturali nelle principali città orientali con il sostegno del Fondo per la ricostruzione guidato da Belgasem Haftar. Il ritorno dei voli Turkish Airlines a Bengasi nel 2025 ha segnato simbolicamente questa rinnovata presenza. Tuttavia, è sul piano della sicurezza che si registrano i segnali più rilevanti di cambiamento. Contatti diretti tra figure militari di alto profilo, come Saddam Haftar e i vertici delle forze armate turche, come gli incontri citati, suggeriscono l’avvio di una cooperazione tecnica più strutturata, che potrebbe includere forniture militari, addestramento e assistenza nella riforma del settore difensivo. Questa nuova fase si inserisce in una visione più ampia dove Ankara punta a ottenere una legittimazione politica nazionale dei controversi accordi marittimi e di sicurezza del 2019, cercando il via libera del parlamento di Tobruch per trasformarli da intese di parte a strumenti condivisi. La rimodulazione risponde a esigenze strategiche precise. Anzitutto, il recupero dell’influenza economica nelle aree orientali, ricche di opportunità per le imprese turche nel settore delle infrastrutture e delle costruzioni. In secondo luogo, il controllo delle infrastrutture petrolifere situate prevalentemente in Cirenaica rende indispensabile per Ankara un dialogo diretto con chi le gestisce, al fine di rafforzare la propria agenda energetica. Un ulteriore motivo è il progressivo riavvicinamento diplomatico tra la Turchia e gli attori arabi rivali, su tutti l’Egitto e gli EAU, il che ha imposto un riequilibrio della politica libica per ridurre le frizioni e massimizzare i punti di cooperazione. Infine, va considerato il “timore” di un isolamento strategico, in un contesto in cui potenze come Russia, Francia e Italia – ma anche in parte Stati Uniti – cercano attivamente di accreditarsi come partner anche nella regione orientale libica.

Come detto, l’apertura verso Haftar non va letta solo come un cambio tattico, ma come parte di un disegno più ampio che mira a consolidare la posizione della Turchia nel Mediterraneo, rendendola capace di dialogare con tutti gli attori rilevanti e di influenzare in modo decisivo gli esiti della transizione libica. In tale quadro, un elemento determinante nel mutamento dell’approccio turco alla Libia orientale è rappresentato dalla progressiva normalizzazione delle relazioni con l’Egitto. Per anni, Ankara e Il Cairo sono stati su fronti opposti nella crisi libica, con la Turchia schierata apertamente a sostegno del governo di Tripoli e l’Egitto tra i principali sponsor della fazione orientale guidata da Haftar. Tuttavia, la distensione tra i due paesi ha avviato un processo di riallineamento che ha avuto effetti diretti anche sul dossier libico. Il ripristino delle relazioni diplomatiche bilaterali e gli incontri tra funzionari turchi ed egiziani hanno prodotto un clima di maggiore cooperazione regionale, spingendo Ankara a riconsiderare la propria posizione di parte nel conflitto libico. In questo contesto, la Turchia ha iniziato a vedere il dialogo con l’est libico non più come un cedimento strategico, bensì come un’opportunità per consolidare il proprio peso nella regione attraverso una logica di equilibrio e inclusione. La possibilità di coordinarsi con Il Cairo su dossier di sicurezza, migrazione e sviluppo economico ha fornito ad Ankara nuovi incentivi per ridurre l’asimmetria del proprio coinvolgimento libico, abbandonando l’approccio binario che l’aveva tenuta ancorata a una sola fazione. Di fatto, la distensione con l’Egitto ha funzionato da catalizzatore per una politica estera più pragmatica, facilitando l’apertura verso attori precedentemente considerati antagonisti.
Al contempo, nell’ottica di un rafforzamento della sua immagine come attore regionale consolidato, negli ultimi anni, la Turchia ha ampliato significativamente la sua presenza nella regione del Sahel, rafforzando legami politici, economici e militari con diversi paesi dell’area. Attraverso accordi bilaterali e investimenti infrastrutturali, Ankara – così come Mosca – mira a consolidare la sua influenza in una regione strategica sia per le rotte migratorie sia per le sfide legate alla sicurezza. Questo crescente coinvolgimento si inserisce nella più ampia strategia turca di espansione dell’influenza nel continente africano, in alternativa alla presenza tradizionale di attori europei e occidentali. In questo contesto, l’intera Libia riveste, evidentemente, un ruolo chiave: la Turchia utilizza il paese nordafricano come ponte verso il Mediterraneo, facilitando così l’accesso logistico e politico al Sahel e proiettando la propria influenza sulla regione.
Tuttavia, la “nuova” strategia turca non è priva di rischi. Mantenere un equilibrio tra Tripoli e Bengasi può generare diffidenze nei confronti della Turchia, soprattutto tra gli attori della regione occidentale che da anni la considerano un alleato esclusivo. La percezione, da parte dell’esecutivo di Dbeibah e delle formazioni armate a esso fedeli, di un ridimensionamento del sostegno turco potrebbe generare nuove incertezze sulla tenuta del governo e innescare dinamiche di competizione tra attori locali in cerca di nuovi referenti esterni. In un contesto istituzionale già frammentato come quello libico, anche un lieve slittamento degli equilibri di potere rischia di tradursi in tensioni sul terreno e in un indebolimento dell’autorità centrale. Infatti, dal punto di vista politico, l’apertura di Ankara verso la Cirenaica riduce il margine di manovra del premier misuratino, che vede erodersi la posizione di interlocutore privilegiato di Erdoğan, in un momento in cui la pressione per la formazione di un nuovo esecutivo transitorio è molto forte, dopo l’annuncio della nuova roadmap delle Nazioni Unite per permettere lo svolgimento delle elezioni.
Inoltre, il ruolo crescente della Russia nell’est e la natura ambigua del potere di Haftar complicano ulteriormente il quadro. Ankara agirà con cautela, evitando una sovraesposizione e cercando al contempo di affermarsi come interlocutore imprescindibile. Nel lungo periodo, la Turchia non si limiterà a gestire il rischio derivante dalla persistente instabilità libica, ma mira a proporsi come attore centrale nella ridefinizione dell’equilibrio interno del paese. Il coinvolgimento simultaneo con le autorità occidentali e orientali consente ad Ankara di posizionarsi come facilitatore nella ricostruzione postbellica, nella riforma istituzionale e nella futura redistribuzione del potere. In definitiva, la sua ambizione sembra essere quella di plasmare un nuovo assetto, superando la logica dello scontro per abbracciare una forma di influenza radicata e bilanciata su scala nazionale. A ciò si aggiunge un ulteriore elemento: diversi Stati, tra cui la stessa Turchia, sembrano ormai accettare lo status quo in Libia, una crisi cronica che ha di fatto diviso il paese in due. Invece di promuovere una reale soluzione politica unitaria, molti attori esterni sembrano preferire mantenere e approfondire i propri interessi nelle due regioni, consolidando così una spartizione di fatto che alimenta l’instabilità e frena ogni possibilità di riconciliazione duratura. Tuttavia, la frammentazione politica, le divisioni istituzionali, la presenza di gruppi armati e la corruzione diffusa restano ostacoli strutturali che, se non affrontati con un approccio coordinato e multilivello, rischiano di far ripiombare la Libia nel conflitto.
Mario Savina
