Gli accordi raggiunti a Sharm el-Sheikh il 13 ottobre 2025 hanno assicurato all’Egitto un innegabile ritorno d’immagine sulla scena internazionale. Un risultato particolarmente significativo dopo gli ultimi anni, caratterizzati da difficoltà e crisi – interne e regionali – che avevano reso complesso il posizionamento del Paese. Per la leadership egiziana, e in particolare per il presidente Abdel Fattah al-Sisi, l’appuntamento internazionale nel Sinai meridionale e la prossima conferenza per la ricostruzione di Gaza (prevista entro la fine di novembre 2025) rappresentano momenti cruciali, che consentiranno al Cairo di presentarsi al mondo in una veste rafforzata: l’obiettivo è ridare slancio al ruolo e alle ambizioni che il Paese rivendica nella gestione dei conflitti – in primis quello israelo-palestinese – e, più in generale, nelle dinamiche critiche del Mediterraneo allargato.
Inoltre, la co-presidenza dello Sharm el-Sheikh Peace Summit insieme a Donald Trump ha evidenziato una delle peculiari capacità del regime egiziano nella gestione delle crisi mediorientali: mobilitare attori diversi e incidere in maniera determinante sui processi negoziali multilaterali. Una caratteristica che ha contraddistinto la cifra politica del Cairo sin dalla fine della Guerra fredda e che si è riproposta anche in tempi recenti in altri contesti complessi del quadrante regionale, come in Libia, Sudan e nel Mar Rosso.
Sebbene la firma degli accordi del 13 ottobre abbia indubbiamente rafforzato il Paese sul piano regionale, è al tempo stesso evidente come questo rilevante palcoscenico sia stato condiviso con altri attori di peso, come Turchia e Qatar, in costante ascesa su un dossier storicamente presidiato dal Cairo. Ankara e Doha hanno infatti costruito legami significativi con Hamas e con altre componenti dell’eterogeneo panorama palestinese, arrivando a erodere la centralità diplomatica ed economica egiziana nella gestione di una questione identitaria per la leadership nordafricana.
Il successo dell’iniziativa internazionale, volta a congelare il conflitto tra Israele e Hamas a Gaza su un ‘modello libanese’ – fine dei combattimenti ma strike ininterrotti da parte da parte delle Forze di difesa israeliane (Israel Defense Forces, IDF) –, poggia tuttavia su basi estremamente complesse: il disarmo di Hamas, la creazione di una Forza internazionale di stabilizzazione (International Stabilization Force, ISF) e l’avvio di una governance transitoria internazionale per l’enclave palestinese. Misure tanto ambiziose quanto difficili da implementare, che da un lato confermano il ruolo del Cairo come interlocutore centrale per Stati Uniti e mondo arabo (meno per Israele), ma dall’altro riflettono anche le priorità securitarie egiziane, le fragilità interne irrisolte e la crescente competizione con attori regionali rivali.
Per tutti questi motivi, è fondamentale analizzare i passi sin qui adottati dal governo egiziano per capire se al chiaro e significativo ritorno d’immagine corrisponderà anche una fase di effettiva rilegittimazione politico-diplomatica, in grado di restituire al Paese peso e influenza comparabili al passato o, più semplicemente, di natura differente.

La priorità securitaria: Gaza e Sinai come frontiere esistenziali
Come emerso anche nel recente vertice di Sharm el-Sheikh, uno dei principali punti di forza dell’Egitto resta la capacità di riunire attorno a un tavolo negoziale attori molto diversi tra loro. Si tratta di una competenza maturata nel tempo e fondata su una posizione storica che consente al Paese di mantenere rapporti paralleli con le varie parti in conflitto: dialogo con Fatah, canali con Hamas, cooperazione securitaria con Israele e partnership attive con Stati Uniti, Qatar e Turchia. Questa peculiarità ha permesso al Cairo di sfruttare le crepe esistenti nei negoziati per inserirsi e svolgere un ruolo pragmatico nella mediazione.
Ancora prima degli intendimenti politico-diplomatici, vi è però un driver fondamentale (e totalizzante) che guida l’approccio egiziano su Gaza e sugli altri dossier chiave regionali: l’approccio securitario. In particolare, sono due le leve strutturali che sostengono questa posizione. La prima è il controllo del valico di Rafah, vera porta d’accesso alla Striscia. Dal pieno esercizio dell’autorità su questo punto di frontiera dipendono non solo la possibilità di regolare i flussi di aiuti umanitari, persone e materiali, ma anche il potere del Cairo di condizionare qualunque processo negoziale. Di fatto, nessuna decisione di sicurezza o di governance a Gaza è possibile senza l’assenso del governo egiziano. Tuttavia, questa leva non è esclusiva: il suo esercizio è condizionato dalla collaborazione con Israele, una dinamica presente fin dal lancio alla fine del 2005 della missione EUBAM (EU Border Assistance Mission) per il monitoraggio del valico di Rafah.
La seconda, direttamente connessa al punto precedente, riguarda il pieno controllo del confine. Tale dimensione si articola su due piani paralleli: operativo e dei servizi d’intelligence. Sul piano operativo, le Forze armate egiziane, insieme ai reparti speciali dell’intelligence militare, controllano la sorveglianza della frontiera e del sottosuolo. Quest’ultimo è particolarmente dirimente, poiché esiste una rete estesa e non del tutto definita di tunnel che collegano le due sponde del valico di Rafah; un ‘labirinto’ attraverso il quale si sviluppano traffici illegali di varia natura (armi, droga, beni di prima necessità, ecc.). Nonostante la distruzione o l’inondazione di numerosi passaggi sotterranei, stime israeliane recenti suggeriscono che, dopo due anni di guerra, una rete ramificata sia rimasta attiva in misura significativa: si ipotizza infatti che circa il 60% dei tunnel risulti ancora intatto.
Questa situazione pone le Forze armate e i servizi di intelligence nella condizione di agire su due binari: da un lato distruggere infrastrutture che possano generare insicurezza e instabilità sul fronte egiziano; dall’altro infiltrare le reti di miliziani, contrabbandieri e gruppi armati che sfruttano questi ‘safe haven‘ per i traffici illegali. Non a caso, l’intelligence cairota ha sviluppato nel tempo una fitta rete di contatti sia all’interno di queste organizzazioni criminali sia con le forze politico-militari palestinesi, facilitando la gestione delle crisi e il contenimento degli incidenti sul campo. Questa dimensione tecnico-operativa ha consentito progressi graduali nelle tregue, conferendo al Cairo credibilità come attore di deconfliction.

Gaza-Sinai: l’Egitto, Israele e la battaglia per la sicurezza
Da questa analisi, emerge quindi la centralità diplomatica della questione di Gaza per l’Egitto, il cui attivismo si fonda innanzitutto su ragioni di sicurezza nazionale. Il tema è particolarmente sensibile perché l’enclave palestinese confina con la penisola del Sinai, considerata frontiera identitaria e strategica che, dal 2011 – soprattutto nella parte settentrionale – non è mai tornata sotto il pieno controllo delle autorità egiziane. Dal 2014, le Forze armate conducono un’offensiva senza quartiere contro gruppi radicali (come Wilayat Sinai, la provincia dello Stato islamico nella regione), con l’obiettivo di ristabilire una solida presenza dello Stato nell’area, interrompere i traffici illegali che destabilizzano il confine con Gaza e Israele e spezzare i legami clientelari che si sono creati tra alcune milizie e le popolazioni locali, per lo più beduine (circa il 70% delle comunità residenti), in netto contrasto con il potere centrale del Cairo.
A complicare ulteriormente il quadro vi è il controllo, da parte israeliana, del corridoio di Philadelphi, la striscia di terra lunga circa 14 km e larga cento metri che demarca il confine tra Egitto e Gaza e comprende anche il valico di Rafah. Secondo gli accordi di Camp David (1978) e il trattato di pace del 1979 questa lingua terrestre sarebbe dovuta restare priva di presenze militari. La presa di fatto del valico di Rafah da parte delle IDF nel 2024 è stata interpretata dagli egiziani come una violazione di tali intese, indebolendo un pilastro della politica statunitense nella regione che aveva comunque garantito una certa stabilità. A ciò si sommano i toni particolarmente bellicosi dell’ultimo biennio, la continua militarizzazione del confine e le minacce di ritorsione reciproca – compresa la retorica sul possibile scioglimento del trattato di pace – che hanno alimentato la diffidenza cairota verso Israele, rendendo così ancora più centrale la dimensione securitaria nelle scelte diplomatiche egiziane.
In questa prospettiva, la conferenza di Sharm el-Sheikh ha rappresentato un successo fondamentale per l’Egitto, avendo contribuito a impedire escalation incontrollate e allontanato, almeno per il momento, l’ipotesi del cosiddetto Piano Riviera: più che un’iniziativa di pacificazione, una proposta immobiliare-demografica avanzata dall’amministrazione Trump e sostenuta in parte da Israele, che prevedeva lo spostamento di circa 2,1 milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza verso il Sinai con il rischio di una crisi umanitaria e politico-diplomatica di ampia portata sul territorio egiziano. Un piano del genere, tra le altre cose, non teneva conto delle ripercussioni sulla sicurezza interna e sull’immagine del Cairo, dove la causa palestinese resta un tema sensibile e largamente sentito come parte dell’identità nazionale, spesso accompagnato da posizioni fortemente anti-sioniste e anti-israeliane.
Per al-Sisi era pertanto impossibile accettare un’operazione che avrebbe trasformato il Sinai – e, verosimilmente, l’intero Paese – in un teatro permanente di instabilità, con conseguenze pesanti sulla sicurezza interna e sulla coesione nazionale, nonché con ripercussioni dirette e immediate sull’intero quadrante arabo-musulmano. Da qui la decisione del governo egiziano di tracciare una ‘linea rossa’ invalicabile contro qualsiasi forma di deportazione o ridefinizione forzata dei confini, e la fermezza nell’imporre agli interlocutori israeliani costi politici significativi in caso di pressioni verso questa direzione.

La triangolazione con Israele e USA: tra cooperazione necessaria e competizione geopolitica
Pur mantenendo una cooperazione solida con Tel Aviv sul piano energetico e di sicurezza, la relazione bilaterale tra Israele ed Egitto è divenuta più fragile. La presenza militare israeliana lungo il confine – in deroga agli accordi del 2006 che prevedevano la smilitarizzazione dell’area – e i piani durante la guerra di ricollocazione dei residenti di Gaza verso sud, ufficialmente presentati come iniziative umanitarie (come proposto dal governo Netanyahu nelle aree di Rafah e al-Mawasi), hanno minato la fiducia tra le parti. In questo contesto, l’Egitto si trova di fronte a un delicato equilibrio: da un lato deve sostenere la causa palestinese ed esprimere solidarietà ai gazawi, così da preservare la propria credibilità nel mondo arabo; dall’altro, deve evitare di compromettere il rapporto strategico con Israele e, soprattutto, con gli Stati Uniti.
Ne deriva il rischio di un crescente irrigidimento delle relazioni bilaterali, anche perché il Cairo potrebbe decidere di rafforzare la propria presenza militare nel Sinai oltre i livelli minimi stabiliti dal trattato di pace del 1979. A conferma di questa tendenza si colloca la mobilitazione di circa 40.000 soldati dispiegati nel Sinai settentrionale, con l’obiettivo di prevenire eventuali trasferimenti forzati di palestinesi da Gaza. Questo irrigidimento sul piano politico e di sicurezza non implica tuttavia una rottura formale. Piuttosto, evidenzia come i due Paesi si muovano all’interno di un quadro di cooperazione-competizione: Israele considera il Cairo un partner utile ma condizionato; l’Egitto, dal canto suo, mira a evitare che Tel Aviv detti unilateralmente tempi e contenuti del ‘day after‘ a Gaza, preservando il proprio ruolo chiave di interlocutore regionale.
Tale quadro rivela l’ambivalenza che caratterizza oggi i rapporti tra Egitto e Israele e che si riversa anche su altri dossier strategici come quello energetico. Su questo piano infatti, la cooperazione rimane significativa, come dimostrato dalla firma dell’accordo per l’acquisto di gas naturale fino al 2040 del valore complessivo di 35 miliardi di dollari, che ha consolidato il ruolo del Cairo come hub energetico regionale, in partnership con operatori come Chevron e con il consorzio del giacimento Leviathan. Tuttavia, tale intesa è stata rimessa in discussione dopo le pressioni esercitate da Israele su Washington per indebolire la posizione negoziale egiziana e non fornire vantaggi competitivi a un player così rilevante nel Mediterraneo orientale.
Il Paese nordafricano si trova dunque a gestire una pressione significativa, ma al tempo stesso deve evitare di incrinare i rapporti con gli Stati Uniti e, in particolare, la relazione personale fra al-Sisi e il presidente statunitense Donald Trump. Washington rimane il principale pilastro della sicurezza egiziana, grazie al sostegno politico e agli aiuti militari, e vede nell’Egitto un attore imprescindibile sia per la sicurezza di Israele sia per la gestione delle crisi nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Il Cairo è, inoltre, pienamente consapevole del ruolo cruciale svolto dagli USA per la propria stabilità interna ed esterna. Non sorprende, quindi, che al-Sisi abbia più volte sollecitato la Casa Bianca a intervenire con maggiore decisione per contenere le ambizioni israeliane e favorire una soluzione al conflitto a Gaza. In questo senso, i pubblici apprezzamenti di Donald Trump nei confronti del presidente egiziano e del ruolo del Paese nelle trattative diplomatiche – inclusa la co-presidenza della conferenza di Sharm el-Sheikh – hanno garantito un immediato ritorno d’immagine al Cairo. Tuttavia, questa rinnovata visibilità deve essere consolidata sia nei confronti di Israele, per raggiungere nella visione USA quello status di contraltare strategico ‘alla pari’ cui l’Egitto aspira, sia nelle dinamiche regionali, dove il Paese nordafricano è chiamato a tradurre il proprio attivismo diplomatico in influenza politica duratura.

Un ritorno ‘condizionato’ al centro dello scenario regionale
Dopo anni in cui il suo peso regionale era apparso ridimensionato, l’Egitto punta dunque a riconquistare quella centralità parzialmente offuscata nel recente passato. Gli Accordi di Abramo avevano infatti rafforzato le monarchie del Golfo, soprattutto in termini di accesso a risorse finanziarie e a canali privilegiati con Washington, relegando il Cairo a una postura più difensiva. A ciò si sono aggiunte le ripetute crisi economiche interne dell’ultimo decennio, che hanno eroso la capacità egiziana di presentarsi come motore politico del mondo arabo e musulmano.
Oggi, però, dopo Sharm el-Sheikh, il Cairo riemerge come pivot diplomatico lungo tre direttrici principali:
1. La consolidata esperienza nel facilitare il dialogo intra-palestinese;
2. La capacità di lavorare con Israele e USA, senza rinunciare a margini di autonomia;
3. Una crescente diversificazione delle relazioni con gli attori regionali.
Si tratta, tuttavia, di un attivismo in parte reattivo, poiché l’Egitto si muove soprattutto per evitare di subire gli effetti destabilizzanti delle crisi che lo circondano – Gaza, Libia, Sudan, Grande Diga del Rinascimento etiope (Grand Ethiopian Renaissance Dam, GERD) – più che per espandere liberamente la propria influenza.
Il rinnovato slancio diplomatico non cancella le fragilità strutturali che continuano a limitare la capacità di proiezione esterna del Paese. Sul piano economico, benché siano emersi alcuni segnali di ripresa, la dipendenza da finanziamenti esteri resta elevata. Inoltre, la contrazione del traffico nel Canale di Suez, provocata dall’instabilità nel Mar Rosso, ha ridotto entrate cruciali per la sostenibilità fiscale. Parallelamente, il dossier sulla GERD con l’Etiopia ha assunto natura di minaccia strategica: l’avvio operativo dell’infrastruttura rischia infatti di ridurre drasticamente le risorse idriche del Nilo, da cui dipende oltre il 90% del fabbisogno idrico egiziano. La questione non è solo economica, ma esistenziale, e potrebbe riaccendere tensioni con Addis Abeba. Sul fronte sudanese, l’avanzata delle Rapid Support Forces (RSF) in Darfur alimenta il rischio di spillover e di nuove pressioni migratorie lungo i confini meridionali, aggravando la vulnerabilità idrica e securitaria del Paese. Né va sottovalutato l’impatto che queste due crisi potrebbero avere sull’intero quadrante regionale, compresa la Libia, già sensibile dal 2011 alle tensioni provenienti dai suoi confini meridionali. In questo scenario, l’Egitto appare intrappolato tra crisi convergenti che saturano la sua capacità diplomatica.
In questo quadro, anche i rapporti di forza con i principali attori regionali rappresentano un campo di sfide non secondario, che il Cairo deve gestire in un contesto mediorientale (e non solo) di crescente competizione. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU), Qatar, Turchia e Iran dispongono di maggiori risorse finanziarie e di strumenti di soft power che permettono loro di contendere all’Egitto il tradizionale spazio di influenza, presentandosi come mediatori alternativi nelle principali crisi regionali, da Gaza al Mar Rosso.
Particolarmente complesso è il livello di cooperazione-competizione esistente tra Egitto, Arabia Saudita ed EAU. Riyadh e Abu Dhabi restano i principali sostenitori economici del Cairo e, nell’ultimo quinquennio, hanno contribuito in modo determinante alla stabilità interna del Paese tramite ingenti aiuti finanziari e acquisizioni strategiche in settori chiave. Tuttavia, tale sostegno comporta un rischio strutturale: le due monarchie del Golfo mirano a consolidare la dipendenza economica egiziana, riducendone l’autonomia strategica e limitandone la capacità di definire un’agenda propria nel mondo arabo-musulmano. A ciò si aggiungono profonde divergenze di vedute su dossier regionali prioritari. Nel contesto palestinese, l’Egitto mira a preservare un ruolo di mediazione diretta, mantenendo centrale la causa palestinese negli equilibri arabi; Arabia Saudita ed EAU tendono invece a preferire approcci più pragmatici e meno conflittuali con Israele, soprattutto nel quadro delle normalizzazioni promosse dagli Accordi di Abramo. Divergenze emergono anche nel Mar Rosso, dove il Cairo interpreta le tensioni come minaccia diretta alla propria sicurezza economica e marittima, mentre Riyadh e Abu Dhabi assumono posizioni più sfumate – talvolta ambigue – e sono inclini a muoversi tramite canali diplomatici o iniziative autonome, non sempre coordinate con l’Egitto. Queste frizioni si riflettono anche nella gestione delle crisi regionali. In Libia, ad esempio, mentre il Cairo ha sostenuto attori più affini sul piano securitario e politico, Arabia Saudita ed EAU hanno spesso perseguito strategie parallele per massimizzare la loro influenza, indipendentemente dalle priorità egiziane. Dinamiche simili si registrano in Sudan, dove il sostegno emiratino alle RSF è percepito dal Cairo come un elemento destabilizzante che rischia di alimentare un doloroso e prolungato conflitto lungo il confine meridionale.
Non meno ambivalenti sono le relazioni con Qatar e Turchia, oggi dotate di una rilevanza specifica soprattutto alla luce della guerra a Gaza. Sul dossier palestinese, il Cairo ha sviluppato con Doha una cooperazione pragmatica e complementare: il Qatar mantiene rapporti diretti con Hamas e svolge funzione di facilitatore politico e finanziario nella Striscia, mentre l’Egitto gestisce i profili securitari, il controllo dei valichi e le componenti negoziali legate al cessate il fuoco e allo scambio di ostaggi. Questa divisione funzionale garantisce a entrambi un ruolo centrale, pur alimentando una competizione implicita per la leadership diplomatica sul dossier palestinese. Il riavvicinamento con Ankara aggiunge un ulteriore livello di complessità. La normalizzazione avviata nel 2023 ha portato alle prime esercitazioni navali congiunte nel 2025, con l’obiettivo di rafforzare il coordinamento nel Mediterraneo orientale e bilanciare il peso israeliano. Tuttavia, Qatar e Turchia condividono legami profondi con l’islam politico, in particolare con la Fratellanza musulmana, elemento che si riflette nei rispettivi approcci alla questione palestinese tramite forme di sostegno pragmatico ad Hamas. In questo contesto, l’eventuale partecipazione turca alla ISF prevista per la «fase 2» a Gaza potrebbe rappresentare una sfida significativa per il Cairo. Un maggiore coinvolgimento di Ankara nella gestione del ‘day after’ rischierebbe di indebolire l’immagine e il ruolo regionale dell’Egitto, tradizionalmente percepito come principale motore arabo sulla questione di Gaza. Ankara, dal canto suo, potrebbe capitalizzare i rapporti privilegiati con Doha e con parte del movimento palestinese per accrescere la propria influenza, sottraendo al Cairo capitale politico e visibilità negoziale. Ciò potrebbe alimentare, nel lungo periodo, nuove dinamiche competitive tra Egitto, Qatar e Turchia – sul modello di quelle già emerse dopo le Primavere arabe – in un contesto in cui la centralità del Cairo non può più essere data per scontata.
Un discorso a parte, ma strettamente legato agli equilibri regionali, riguarda il rapporto con l’Iran. Dal 2024, il Cairo ha puntato a una distensione e progressiva normalizzazione con Teheran, in un’ottica prevalentemente securitaria. Sebbene il riavvicinamento sia ancora cauto, si è tradotto nell’apertura di un canale tattico sul dossier nucleare, attraverso un rafforzato coordinamento con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA). Oltre al nucleare, l’interesse egiziano verso l’Iran riguarda principalmente le minacce ai propri interessi nazionali tra Yemen e Mar Rosso. L’influenza di Teheran sugli Houthi, protagonisti di una campagna navale che ha preso di mira il traffico commerciale internazionale, ha avuto effetti profondamente negativi sull’economia egiziana: l’insicurezza lungo le rotte marittime ha provocato una drastica riduzione del naviglio diretto verso il Canale di Suez (con un crollo di circa il 70% delle entrate da pedaggi), privando il Cairo di risorse essenziali per la stabilità fiscale. In questo quadro, il dialogo con Teheran assume per l’Egitto una funzione eminentemente pragmatica: contenere le minacce nel Mar Rosso, ridurre l’esposizione economica legata alla sicurezza marittima e prevenire una destabilizzazione su larga scala che potrebbe aggravare vulnerabilità interne. La gestione di questo dossier rappresenta dunque uno dei principali banchi di prova della strategia egiziana di diversificazione diplomatica, volta a ritagliare per il Paese margini di manovra extra-occidentali senza compromettere – almeno formalmente – il rapporto con Washington.

Dopo Sharm el-Sheikh: un Egitto più forte o solo più visibile?
Il vertice del 13 ottobre ha senza dubbio rilanciato l’immagine dell’Egitto come attore peculiare nella crisi di Gaza. Si tratta, tuttavia, di una centralità più contingente che strutturale, poiché poggia su basi interne fragili, dipende dal sostegno economico esterno arabo (specie dal Golfo Persico) e internazionale e si confronta con la concorrenza di attori regionali dotati di risorse e con ambizioni crescenti.
Sul piano interno, il summit ha offerto al governo un prezioso strumento narrativo. Presentandosi come garante della stabilità e interlocutore imprescindibile nei negoziati regionali, il regime ha cercato di consolidare la propria legittimità politica. Tuttavia, la possibilità di convertire questa rinnovata visibilità in consenso reale rimane tutt’altro che scontata a causa di una debolezza economico-finanziaria strutturale che in qualche modo continua a erodere la fiducia della popolazione. Di fatto, la ‘rendita diplomatica’ rischia di dissolversi rapidamente se non si tradurrà in benefici (politici ed economici) tangibili a livello domestico.
Sul piano regionale, il Cairo appare più esposto e visibile, ma non necessariamente più influente. La sua capacità di incidere sui principali dossier rimane condizionata dall’orientamento degli USA, dalla disponibilità di Arabia Saudita ed EAU a sostenerne la stabilità finanziaria e dal grado di coinvolgimento che Israele vorrà riconoscergli nei processi decisionali. L’Egitto si trova così a gestire un’agenda particolarmente impegnativa: l’attuazione del cessate il fuoco e della governance transitoria a Gaza; una possibile riapertura regolata del valico di Rafah con garanzie multilaterali; la protezione dei traffici nel Mar Rosso e, con essi, della funzionalità del Canale di Suez; il negoziato con l’Etiopia sulla GERD; il contenimento del conflitto in Sudan e la gestione dei flussi migratori.
Nonostante tali vincoli, l’Egitto mantiene margini di manovra per contribuire alla de-escalation regionale. Può, ad esempio, ospitare meccanismi multilaterali di monitoraggio del cessate il fuoco, coordinare la dimensione sicurezza-ricostruzione a Gaza e promuovere un dialogo tecnico più strutturato sulla governance politica intra-palestinese nella Striscia. La vera sfida sarà, dunque, trasformare l’attivismo tattico in una strategia coerente e duratura, così da permettere al Paese di fronteggiare con consapevolezza le sfide crescenti nel quadrante mediorientale e africano. Solo così il Cairo potrà evolvere da semplice ‘partecipante al tavolo’ a co-autore delle regole della nuova architettura di sicurezza regionale. In questa prospettiva, la riconquistata centralità egiziana rimane ancora troppo vulnerabile alle oscillazioni del contesto regionale.
Giuseppe Dentice
