Energia e ambiente: fumata nera per la Bosnia

La sicurezza energetica è tornata al centro dell’attenzione, anche a seguito della crisi in corso tra Russia e Ucraina e i problemi che ne sono conseguiti in termini di approvvigionamento del gas russo per molti Stati europei, Italia compresa. Paesi che sono già tendenzialmente poveri di risorse e capacità economiche, come la Bosnia-Erzegovina, potrebbero subirne gli effetti in modo ancor più dirompente.

La Bosnia ha sufficienti capacità per quanto riguarda lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, vista la presenza di abbondanti risorse idriche sul territorio che potrebbero costituire un’importante componente del fabbisogno interno, tuttavia, solo il 35% di tale fonte viene utilizzata. I dati peggiorano ulteriormente se si prende in considerazione l’uso dell’energia eolica, geotermica e solare, praticamente inesistenti. Secondo l’analisi della FIPA (Foreign Investment Promotion Agency) ad oggi il carbone si conferma come la fonte principale per la produzione elettrica. La Bosnia, infatti, possiede grandi riserve di carbone e di lignite: più del 60% dell’elettricità è prodotta da centrali termoelettriche a carbone.

Una centrale termoelettrica nei pressi di Tuzla, in Bosnia. Fonte: Wikimedia Commons.

Se si guarda alle importazioni di petrolio e gas, la Bosnia è dipendente al 100% – e il gas viene fornito principalmente dalla Russia. Nonostante la sua totale dipendenza da fonti importate per quanto riguarda queste fondamentali risorse, la Bosnia si mantiene piuttosto autonoma dal punto di vista energetico grazie alla produzione di carbone, con circa cinque centrali termoelettriche e più di 20 miniere; un’autonomia che però ha un caro prezzo dal punto di vista ecologico. Questi impianti, infatti, sono tra i più inquinanti in Europa, eppure non si fermano gli investimenti per la costruzione di nuove centrali o di piani di allargamento delle unità produttive di stabilimenti già esistenti. È proprio questo uno dei problemi di fondo che alimentano la dipendenza da carbone: molte banche investono ancora su queste centrali, mantenendo quindi lo status quo. Neanche il crescente coinvolgimento dell’Unione europea nei Balcani è riuscito finora a invertire questa tendenza. Nonostante il crescente interesse dell’Ue per temi come la climate neutrality e l’abbassamento del livello delle emissioni di CO2, due banche da essa controllate hanno finanziato il settore carbonifero fino al 2019. Si tratta della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) e della Banca europea per gli investimenti (Bei) che hanno destinato una parte del bilancio alla sovvenzione di progetti per il mantenimento o la creazione di stabilimenti a carbone o in generale di produzione di energia da combustibili fossili. Fino al 2019, infatti, non era verosimile immaginare una transizione energetica sostenibile nei Balcani occidentali. Anche attualmente è possibile investire in progetti che ruotano attorno allo sfruttamento del carbone, purché si tratti di centrali termoelettriche dotate di sistemi che abbattono le emissioni di CO2. Nel resto d’Europa la tendenza è molto simile. Secondo il rapporto di Banking on Climate Change, infatti, nel 2020 si è registrata una crescita del 10% negli investimenti a favore di circa 100 aziende europee che utilizzano il carbone e prevedono di continuare a farlo con nuovi progetti. Nella top list delle banche private europee, e non, che finanziano queste compagnie, ci sono Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase, Unicredit e BNP Paribas.  Anche l’Industrial Bank e la Bank of China sono tra i principali protagonisti di queste operazioni di investimento. Questi finanziamenti hanno favorito un aumento del 25% nell’uso delle miniere a carbone rispetto ai dati registrati a partire dal 2016.

Proprio in riferimento alle banche cinesi, nel 2017 il Parlamento della Federazione della Bosnia-Erzegovina ha approvato un finanziamento per un valore iniziale di 613 milioni di euro da parte della Export-Import Bank of China e della China’s Exim Bank, alle quali in seguito si è unito un consorzio di altri istituti di credito, tra cui l’italiana Intesa Sanpaolo. Il prestito ottenuto servirà per costruire una nuova unità della centrale termoelettrica a carbone della città bosniaca di Tuzla, l’installazione più grande del paese.

La centrale di Tuzla. Fonte: Wikimedia Commons.

Nel 2020 però il progetto sembra essersi arenato, anche se non è stato ancora ufficialmente cancellato. L’area intorno a Tuzla è già – a prescindere dalla realizzazione del nuovo impianto – la più inquinata della Bosnia. Secondo le rilevazioni dell’Organizzazione internazionale Bankwatch, il livello di inquinamento è di quasi sei volte superiore alla soglia massima raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Oltre agli investimenti bancari, un altro problema che rallenta il progressivo abbandono del carbone è che questo – trattandosi della fonte principale di energia del paese – è uno dei settori che garantiscono più occupazione. Ridimensionare l’attività delle centrali e delle miniere di carbone significherebbe licenziare moltissimi lavoratori. Di conseguenza, nessun politico ha mai, finora, affrontato realmente la questione. Il timore è quello di perdere consensi, e di creare un malcontento sociale in un’area già di per sé molto svantaggiata dal punto di vista economico. Va inoltre evidenziato come la domanda di carbone sia più bassa rispetto al passato. Questo ha causato l’indebitamento delle miniere e l’intervento del governo che, stanziando una serie di sussidi, mantiene ancora basso il prezzo dell’energia.

L’assetto politico-istituzionale del paese, inoltre, rende la gestione del settore energetico particolarmente complessa. Attualmente la Bosnia si articola in base a uno schema federale composto da due diverse entità e un distretto: la Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina (o Republika Srpska, a maggioranza serba), la Federazione di Bosnia-Erzegovina (a maggioranza croata e “bosgnacca”/musulmana) e il Distretto autonomo di Brčko, che è formalmente parte di entrambe le entità. Ogni realtà politica ha una propria autorità per la regolamentazione del settore dell’energia elettrica. Manca, quindi, una strategia unica a livello nazionale. Per queste ragioni ogni decisione è fortemente rallentata dalle contrapposizioni e dalla mancanza di una progettualità in un contesto in cui le forze politiche del paese ragionano per forza di cose soltanto in un’ottica di breve termine.

La mappa politica della Bosnia ed Erzegovina. Fonte: Wikipedia.

La situazione descritta non solo alimenta la storica dipendenza dal carbone ma impedisce lo sviluppo di una visione a lungo termine in merito all’utilizzo delle rinnovabili, nonostante si tratti di una strada percorribile considerata la presenza sul territorio di altre fonti di energia sfruttabili. In Bosnia non mancano infatti, come menzionato, le risorse idriche, che consentirebbero di costruire delle centrali idroelettriche come fonte di energia alternativa. Tuttavia in questo caso, oltre agli ostacoli già elencati, si associano anche le proteste degli agricoltori locali, che vorrebbero sfruttare le risorse idriche esclusivamente in funzione dell’irrigazione dei campi.

Per quanto riguarda invece l’uso dell’energia eolica si contano ad oggi appena due centrali: una, operativa dal 2014, nei pressi di Poklecani, nella Bosnia sud-occidentale; un’altra in costruzione nella stessa area. Sul fronte del fotovoltaico, attualmente esistono circa 10 centrali solari di piccole dimensioni.

Nel settembre del 2021 l’azienda locale Etmax di Banja Luka ha presentato la richiesta di una concessione alla Repubblica Srpska per la costruzione di una grande centrale fotovoltaica solare nella città di Nevesinje. Se il progetto dovesse effettivamente andare in porto sarebbe il primo vero passo verso un reale utilizzo di questa fonte di energia alternativa. L’uso delle rinnovabili è dunque un’opzione per ridurre l’impatto ambientale della produzione elettrica.

Il lago di Tuzla. Fonte: Wikimedia Commons.

Per cercare di ridurre gli effetti sull’ambiente legati all’utilizzo del carbone, l’Ue ha dichiarato di volere ottenere la climate neutrality entro il 2050, richiedendo a tutti gli Stati membri di adottare delle misure che vadano in questa direzione, tagliando le emissioni di CO2. La Bosnia – pur non essendo un paese membro dell’Ue – dovrebbe dunque migliorare l’efficienza del suo mercato energetico, allo scopo di allinearsi ai nuovi parametri europei e milgiorare le sue possibilità di entrare in futuro a far parte dell’Unione. Va sottolineato comunque come alcuni tra gli stessi Stati membri dell’Ue non rispettino questi criteri. La Polonia, ad esempio, ha un tasso di inquinamento molto alto, che nella parte sud-occidentale del paese raggiunge i livelli “bosniaci”. La stessa Germania è tornata, anche se nel breve termine, all’uso del carbone a causa del progressivo, e sembra ormai definitivo, abbandono del nucleare. Tutto questo nonostante l’obiettivo europeo del raggiungimento di un’economia carbon free sia stato ufficialmente anticipato dal 2038 al 2030. Tra l’altro, nel caso della Bosnia, ancora più lontane dal raggiungimento di questo traguardo sono le aree prossime alle miniere di carbone, come Tuzla, Kakanj o Ugljevik, nella Republika Srprska.

Gli effetti dell’inquinamento a Zenica, in Bosnia. Fonte: Wikimedia Commons.

Diversi fattori potrebbero costituire uno stimolo per una riforma del settore energetico bosniaco. Tra questi si possono citare la riduzione, a partire dal 2019, dei finanziamenti al settore energetico da combustibile fossile da parte degli istituti finanziari internazionali, l’introduzione di nuovi target europei per la diminuzione delle emissioni di CO2 e la presenza sul territorio di risorse alternative al carbone. Tuttavia, restano molti e intricati nodi da sciogliere, come la presenza di autorità tripartite che impediscono una gestione unitaria del settore energetico, le criticità occupazionali e le divisioni politiche. Questi problemi, uniti alla situazione economica in cui versa il paese, non consentono di prevedere una riduzione dell’uso del carbone, almeno nel breve-medio termine. Quest’ultima risorsa risulta infatti ancora troppo importante per la tenuta del tessuto socio-lavorativo bosniaco, e il suo abbandono significherebbe la perdita di moltissimi posti di lavoro con conseguenti tumulti sociali. Nonostante sia chiaro che una seria visione strategica di riforma del settore energetico necessiti il progressivo abbandono del carbone in favore di fonti di energia più “verdi”, ad oggi nessun politico bosniaco ha avuto la capacità di iniziare questo percorso.

Chiara Vilardo