La Croazia nell’area Schengen riaccende il dibattito sulla rotta balcanica

Con l’inizio del nuovo anno la Croazia ha fatto il proprio ingresso nell’area Schengen, spazio di libera circolazione che dal 1995 a oggi ha abolito le frontiere tra 23 paesi Ue e quattro paesi non comunitari – Irlanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. L’adesione di Zagabria, approvata lo scorso dicembre dal Consiglio dell’Unione europea, si è concretizzata il 1° gennaio e ha comportato l’accesso della Croazia alla cerchia ristretta di paesi che fanno parte al contempo di Ue, Nato, Eurozona e Schengen. Si tratta di un traguardo notevole in primis per Bruxelles, che negli ultimi mesi ha dimostrato in più occasioni di voler accelerare il processo di integrazione dei paesi balcanici nella struttura europea in risposta all’instabilità internazionale innescata dal conflitto russo-ucraino; non è un caso, in effetti, che l’inserimento della Croazia nell’area Schengen sia avvenuto a poca distanza dall’avvio dei negoziati per l’ingresso dell’Albania nell’Ue e dal conferimento dello status di candidato a Macedonia del Nord e Bosnia-Erzegovina.

Anche per Zagabria si può indubbiamente parlare di successo geopolitico, se non altro per i molteplici vantaggi che l’adesione allo spazio di libera circolazione comporta. L’abolizione delle oltre 80 frontiere terrestri e marittime che fino a poche settimane fa separavano il paese da Slovenia, Ungheria e Italia non potrà infatti che favorire il movimento dei lavoratori, ridurre notevolmente le tempistiche di importazione ed esportazione e dare un input significativo al settore turistico, responsabile del 20% del Pil croato. Ma il venir meno delle frontiere potrebbe avere ripercussioni positive soprattutto su quelle aree di confine segnate dalle guerre e dalle spartizioni territoriali che hanno caratterizzato la storia recente dei Balcani occidentali: è il caso ad esempio dell’Istria, penisola multietnica che con la dissoluzione della Jugoslavia si è ritrovata divisa tra Croazia (in misura maggiore), Slovenia e Italia e che oggi, con l’avvio della libera circolazione fra i tre paesi, può considerarsi almeno in parte riunificata.

Bandiere dell’Unione europea (a sinistra) e della Croazia (a destra).
Fonte: Croatiaweek.com

Nonostante la soddisfazione delle istituzioni croate ed europee, non si può certo dire che l’ingresso di Zagabria nello spazio Schengen sia stato rapido e poco dibattuto. Avviato nel 2015 su richiesta del governo croato, il processo ha conosciuto un primo avanzamento nel 2019 – con un’approvazione iniziale da parte della Commissione europea – per poi procedere nel 2021 – con il secondo via libera del Consiglio dell’Ue – e concludersi definitivamente nel 2022. Nei sette anni intercorsi dalla presentazione della domanda al suo accoglimento, la Croazia ha dovuto soddisfare una serie di requisiti piuttosto restrittivi in un’ampia varietà di ambiti: protezione dei dati, cooperazione in materia di giustizia e sicurezza, politica dei visti, partecipazione allo Schengen information system e, chiaramente, gestione dei confini. Elementi uniti da un fil rouge a cui le autorità europee hanno sempre attribuito particolare importanza: la tutela dei diritti fondamentali. L’attenzione principale, in questa cornice, è andata proprio all’amministrazione delle frontiere esterne, aspetto che nel caso della Croazia risulta particolarmente complesso e delicato. Condividendo un confine lungo oltre 1530 km con Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro, il paese è infatti diventato uno degli snodi principali della rotta balcanica, la via percorsa dai migranti mediorientali – per lo più afghani, pakistani e siriani – che cercano di entrare nel territorio Ue. Sebbene il dibattito europeo in tema di migrazioni tenda spesso a concentrarsi sui flussi che interessano il Mediterraneo centrale, numerosi studi di Frontex hanno dimostrato come la rotta privilegiata dagli esuli sia ormai da tempo proprio quella che percorre i Balcani, come testimoniato dagli oltre 140mila attraversamenti registrati nei primi sei mesi del 2022 contro i 93mila avvenuti via mare. È per tale ragione che già a partire dal 2013, anno di ingresso nell’Ue, la Croazia ha cominciato ad indirizzare gran parte delle proprie risorse alla gestione delle frontiere esterne, dedicando un’attenzione particolare specialmente al confine bosniaco. È infatti nel nord-ovest della Bosnia-Erzegovina, più precisamente in prossimità delle città di Bihać e Velika Kladusa, che si verificano i tentativi più frequenti di attraversamento illegale delle frontiere. Ciò è imputabile in buona parte all’aumento dei respingimenti forzati da parte dell’Ungheria, dinamica che gradualmente ha portato i migranti a tentare l’ingresso nel territorio Ue attraverso il confine croato-bosniaco piuttosto che attraverso quello serbo-ungherese.

Rotta balcanica. Fonte: Firenzepost.it

Proprio la difficile questione al confine bosniaco ha reso particolarmente controversa l’adesione di Zagabria all’area Schengen. È infatti noto che la polizia croata, al pari di quella ungherese, abbia fatto ricorso negli ultimi anni a metodi sempre più duri per contrastare i tentativi di sconfinamento illegale. Tra questi spicca in particolare la pratica del pushback, respingimento dei migranti mediante l’uso della forza che nel 2017 ha portato alla morte di una bambina afghana e alla condanna delle autorità croate da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il timore di diversi organismi umanitari internazionali è che adesso, paradossalmente, l’adesione di Zagabria all’area di libero movimento comporti un peggioramento della situazione. Se prima infatti la Croazia vigilava sulle proprie frontiere per guadagnare la fiducia di Bruxelles, ora l’essere diventato il limes esterno più lungo e critico dell’area Schengen potrebbe indurre il paese ad adottare una linea ancora più dura nei confronti dei migranti illegali. Lo dimostra la recente decisione del governo di avviare un’attività di disboscamento massivo della foresta che si estende dall’altopiano di Korenica fino a Bihać, uno dei tratti più critici del confine croato-bosniaco: è qui infatti che, complice la conformazione geografica che rende l’area poco controllabile, si concentra il maggior numero di attraversamenti clandestini. L’abbattimento dei primi 15 km di alberi – a cui presto se ne aggiungeranno altri 25 – consentirà alle autorità croate di installare sistemi di monitoraggio del confine ad ampio raggio e di individuare più facilmente i migranti, con il rischio che il ricorso alla forza e ai respingimenti illegali aumenti ancora.

Migranti lungo la rotta balcanica. Fonte: Dinamopress.it 

L’elemento che fa riflettere, in questa situazione già particolarmente delicata, è che la gran parte dei finanziamenti di cui Zagabria si serve per il controllo dei propri confini arriva proprio dall’Ue, che dal 2014 al 2020 ha destinato oltre 110 milioni al Fondo asilo, migrazione e integrazione croato. Altrettanto contraddittoria è la scelta di Bruxelles di chiudere un occhio rispetto alla questione dei respingimenti, pratica che viola diverse norme internazionali – a tale riguardo si è espresso anche il Tribunale di Roma in una sentenza del 2021 – e che pone le autorità che li esercitano in una posizione di vero e proprio illecito. Tali atteggiamenti confliggono coi tentativi dell’Ue di ergersi a garante dei diritti fondamentali e non hanno mancato, in più di un’occasione, di creare imbarazzo anche tra le stesse istituzioni comunitarie; basti pensare all’indagine condotta tra il novembre 2020 e il febbraio 2022 dall’ufficio del Mediatore europeo, figura giuridica incaricata dal Parlamento per intervenire su eventuali situazioni di abuso, per valutare l’effettiva capacità della Commissione di vigilare sulla gestione delle frontiere croate.

La controversa questione del confine croato-bosniaco non è, per altro, l’unica criticità emersa in occasione dell’ultimo allargamento dell’area Schengen. A far discutere è stato anche il trattamento riservato a Bulgaria e Romania, paesi a cui è stato negato l’accesso allo spazio di libero movimento a causa del veto imposto da Austria e Paesi Bassi. Una situazione che pone l’accento sulle persistenti difficoltà riscontrate dai paesi membri nell’adottare una linea comune nei confronti del proprio fianco più orientale.

I risvolti della recente adesione della Croazia all’area Schengen sono dunque molteplici e contrastanti. Da un lato, va riconosciuto a Bruxelles il merito di aver ulteriormente integrato nell’architettura europea un paese che riveste un ruolo significativo nel delicato quadrante balcanico. D’altro canto, non si può trascurare il compromesso a cui l’Ue è scesa per raggiungere tale obiettivo avallando una gestione quanto meno ambigua del fenomeno migratorio. Una contraddizione che spesso caratterizza le relazioni euro-balcaniche e che si riflette anche nell’alternarsi di atteggiamenti di apertura e di chiusura da parte di alcuni Stati membri nei confronti dei vicini orientali, siano essi già parte dell’Ue – come nel caso di Bulgaria e Romania – o candidati all’ingresso.

Carlotta Maiuri