La sfida europea nei Balcani occidentali tra passato e futuro

Lo scorso 6 dicembre si è tenuto a Tirana il vertice Ue – Balcani occidentali. È stato il primo incontro tra i leader dei paesi interessati ad essere organizzato nella penisola balcanica, fuori dai confini europei. Diversi i temi trattati: gli aiuti economici previsti da Bruxelles a favore dei paesi dell’area, in particolare per far fronte alla crisi energetica; il problema della migrazione irregolare; la questione dell’allargamento dell’Unione europea, elemento che ha poi portato, il successivo 15 dicembre, al riconoscimento dello status di candidato all’ingresso nell’Ue per la Bosnia-Erzegovina.

Vertice Ue-Balcani occidentali: Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo (al centro), Ursula Von der Leyen, Presidente della Commissione europea (a sinistra), e Edi Rama, Primo ministro albanese (a destra). Fonte: Youtube

Da questo ultimo punto di vista, il processo di allargamento a favore dei Western Balkan six, i sei paesi candidati e aspiranti candidati all’ingresso nell’Unione, si è finora rivelato lento e poco efficace, anche se in questa fase qualcosa potrebbe essere cambiato. L’attuale situazione di crisi, infatti, causata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ha reso più urgente la necessità per Bruxelles di far fronte comune per attirare a sé i paesi dei Balcani occidentali, al fine di garantire la pace e la stabilità regionale, con particolare riferimento a Bosnia, Serbia e Kosovo. Attualmente, i rapporti fra l’Ue e i paesi dei Balcani occidentali non membri sono regolati sulla base del processo di stabilizzazione e associazione (PSA), che stabilisce la politica europea – processo distinto dai negoziati di adesione – nei confronti dei Balcani occidentali, al fine di contribuire a preparare i partner alla futura membership. In particolare, i loro rapporti hanno assunto maggiore rilievo negli anni più recenti in relazione a due fenomeni: da una parte, l’aumento consistente dei flussi migratori attraverso la rotta che passa per quest’area e, dall’altra, l’importanza strategica che la regione sta assumendo per l’Unione con riferimento ad alcuni progetti infrastrutturali ed economici. Per quanto riguarda la questione delle migrazioni irregolari, anch’esse oggetto del vertice, la rotta “balcanica” rimane un nodo cruciale da sciogliere perché rappresenta una delle principali vie verso l’Europa. Tale direttrice, infatti, fa riferimento ai migranti irregolari che raggiungono l’Europa da Albania, Bosnia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia. Il fenomeno migratorio che interessa quest’area è disciplinato attraverso lo strumento di assistenza pre-adesione, detto IPA III, che mette a disposizione fondi per il periodo 2021-2027. Tali fondi sono destinati all’attuazione di una serie di programmi volti a potenziare la capacità di gestione del fenomeno nella regione, anche attraverso un aumento dei poteri esecutivi – come ad esempio verifiche di frontiera e registrazione delle persone –  attribuiti al personale di Frontex, agenzia cui è affidato il funzionamento del sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dello Spazio Schengen e dell’Ue.

Il secondo punto di cui si è discusso nella capitale albanese ha riguardato gli aiuti economici indirizzati da Bruxelles verso i Balcani. In particolare, l’Unione ha messo a disposizione un miliardo di euro, soprattutto sotto forma di investimenti per combattere la crisi energetica. Questo nuovo pacchetto di sostegno servirà a calmierare i prezzi dell’energia, con 500 milioni destinati a diminuire il costo delle bollette e altri 500 agli investimenti necessari ad accelerare la transizione energetica, nel contesto del piano REPowerEu, così da ridurre la dipendenza energetica dalla Russia. Inoltre, è previsto l’acquisto congiunto tra Ue e Balcani occidentali di gas e idrogeno, in modo da garantire una fornitura a prezzi bassi. A sostegno della volontà dell’Ue di imporsi come principale investitore e partner commerciale nella regione, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha annunciato un ulteriore aiuto di 10 milioni di euro per la Bosnia-Erzegovina come sostegno militare. Dopo lo scoppio del conflitto nell’Europa orientale, infatti, il contingente delle truppe Eufor Althea – missione di pace dell’Ue stanziata in Bosnia – è stato aumentato. Un ulteriore passo positivo è stato il raggiungimento dell’accordo, che dovrebbe entrare in vigore alla fine del 2023, per abbassare e omologare le tariffe di roaming tra l’Ue e i paesi dei Balcani occidentali.

Il risultato più rilevante del vertice è stato però raggiunto con l’assegnazione da parte del Consiglio europeo, il 15 dicembre, dello status di candidato a entrare a far parte dell’Ue alla Bosnia-Erzegovina. La Bosnia diventa così il quinto paese della regione ad ottenere tale possibilità, preceduta dalla Macedonia del Nord nel 2005, dal Montenegro, che ha ottenuto lo status nel 2010, dalla Serbia nel 2012 e, infine, dall’Albania nel 2014. Il riconoscimento dello status di candidato rappresenta per Sarajevo una tappa storica, nonostante alcune significative criticità. L’Ue, infatti, prima di poter aprire ai negoziati di adesione, richiede il completamento di una serie di riforme atte ad omologare in vari settori gli standard del paese a quelli europei. In particolare tali criteri riguardano: l’indipendenza del sistema giudiziario; il contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata; il pieno rispetto dei diritti fondamentali e la garanzia di una attività delle istituzioni del paese richiedente libera da condizionamenti illeciti, esterni e non. È la Commissione europea a monitorare i progressi compiuti, attraverso raccomandazioni con le quali si manifesta l’esigenza di raggiungere questi obiettivi.

Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, ufficialmente candidata nel 2022 ad entrare nell’Unione Europea. Fonte: Wikimedia Commons

La decisione nei confronti della Bosnia è frutto dell’attuale contesto geopolitico: un tentativo di non lasciare ulteriore spazio nella regione alle influenze esterne. In concreto, questo status non cambia per il momento le relazioni con l’Ue. Non sono infatti previsti vantaggi particolari per un paese a cui sia stato attribuito lo status di candidato, se non la necessità di attuare concretamente le riforme richieste da Bruxelles. In questo senso, pur avendo compiuto certamente un passo avanti nel percorso di avvicinamento all’Unione, completarlo non sarà facile a causa di una serie di difficoltà. Innanzitutto, definire i cambiamenti che l’Ue richiede sarà complicato considerata la situazione politica della Bosnia, le divisioni interne e le difficoltà di governo. Ad aumentare i problemi legati ad un possibile futuro dentro l’Unione europea si aggiunge la posizione della Repubblica Srpska (RS), una delle due entità che compongono la Bosnia. Banja Luka – capitale de facto dell’entità della RS – attua infatti da tempo una sorta di piano di logoramento interno guidato dall’attuale presidente, Milorad Dodik. In particolare, Dodik richiede una serie di proposte legislative che rendano possibile di fatto la secessione: sistema giudiziario e scolastico autonomo, ispirato a quello serbo, e indipendenza fiscale. Anche il tentativo di creare un proprio esercito ha causato allarmi a più livelli e ha riportato inevitabilmente al ricordo delle guerre nell’ex-Jugoslavia, una dinamica aggravata dal mancato riconoscimento da parte dei serbo-bosniaci, ancora oggi, del genocidio di Srebrenica. A questo si aggiunge la stretta relazione tra Milorad Dodik e Vladimir Putin che ha sempre sostenuto le aspirazioni secessioniste della RS. Rapporto che non è stato scalfito neppure dall’invasione russa dell’Ucraina: infatti il leader serbo bosniaco ha incontrato il presidente Putin in occasione dell’International Economic Forum tenutosi a San Pietroburgo nel giugno del 2022, a guerra già iniziata. In questo contesto aumenta quindi l’esigenza per i leader europei di avanzare nel cammino dell’integrazione.

Incontro tra Milorad Dodik e Vladimir Putin, in occasione dell’International Economic Forum tenutosi a San Pietroburgo, nel giugno 2022. Fonte: SarajevoTimes

Un ulteriore difficile banco di prova del processo di allargamento dell’Ue è rappresentato dalla relazione con Serbia e Kosovo. Il governo serbo non ha mai riconosciuto l’indipendenza di Prisitna, proclamata nel 2008. Ma, al momento, il nodo centrale riguarda il mancato riconoscimento della sua indipendenza da parte di alcuni paesi già membri dell’Unione: Spagna, Grecia, Slovacchia, Romania e Cipro. Requisito questo che, evidentemente, rende molto più complicato il suo ingresso. Il rilancio del dialogo tra Belgrado e Pristina è stato uno degli argomenti toccati al vertice, pur non essendo stato formalmente inserito tra i punti all’ordine del giorno, soprattutto alla luce dei recenti nuovi scontri che si sono consumati tra gli albanesi kosovari e i serbi del Kosovo nel nord del paese. La cosiddetta “guerra delle targhe” esplosa la scorsa estate, e che sembrava essersi risolta con il raggiungimento di un accordo a Bruxelles, è invece sfociata, lo scorso novembre, nelle dimissioni di massa da incarichi pubblici di funzionari amministrativi kosovari di etnia serba, quali giudici, poliziotti, sindaci, deputati. La crisi è stata alimentata, poi, dalla nomina, da parte del premier kosovaro Albin Kurti, del nuovo ministro per le Comunità e il Ritorno: la scelta non è stata gradita a Belgrado in quanto sostituisce la precedente ministra, leader del partito Srpska Lista, legato al presidente serbo Vučić.  La Serbia, inoltre, conserva lo storico rapporto con la Russia di Putin, come dimostrato dal mancato sostegno alla scelta occidentale di imporre sanzioni contro Mosca. Allo stesso tempo, però, Vučić dichiara la necessità di investire in riforme che possano portare il paese a sviluppare una maggiore autonomia da Mosca dal punto di vista energetico. L’atteggiamento del governo serbo, insomma, resta quanto meno ambiguo.

L’obiettivo primario dell’Ue resta quindi quello di affermare il suo ruolo nella regione dove, invece, appaiono sempre più presenti Russia, Cina e Turchia, conseguenza, questa, anche dell’indecisione con cui Bruxelles ha gestito finora la questione dell’allargamento. Per tale ragione, la perenne difficoltà dell’Europa nel riuscire a coniugare problemi e interessi dei Balcani va superata. Al contrario, un ulteriore rallentamento della già cronica indeterminazione dell’adesione dei Western Balkan six all’Ue alimenterebbe le influenze di tali attori esterni. La strada per una completa adesione all’Ue prevede chiaramente l’adozione dei valori liberaldemocratici occidentali. Si tratta di un percorso tortuoso, che non risulta completo neppure all’interno di alcuni paesi già membri dell’Unione europea – basti pensare alla Polonia o all’Ungheria –, ma quanto mai necessario per rivendicare un’appartenenza europea che sia totale. Evitare lo “sfruttamento” da parte di altri attori internazionali delle fragilità interne in paesi come Bosnia e Kosovo e reindirizzare la Serbia verso un processo di smarcamento da Mosca appaiono, per l’Ue, obiettivi importanti da raggiungere. Un’azione che richiede, considerato il contesto geopolitico odierno, un reale sforzo proattivo da parte di Bruxelles. Nel disordine attuale, con un sistema mondiale ormai multipolare, all’interno del quale altri attori internazionali si stanno imponendo, la vera sfida per l’Europa sarà quella di trovare una sua piena collocazione nel nuovo contesto internazionale.

Chiara Vilardo