Per la prima volta dopo 46 anni di interruzione dei rapporti diretti, l’Iran e gli Stati Uniti hanno deciso, nell’aprile 2025, di avviare un dialogo bilaterale. In passato, nell’ambito dei negoziati multilaterali del gruppo 5+1, le delegazioni iraniana e statunitense si erano sedute allo stesso tavolo, e avevano condiviso i dettagli che avevano portato all’accordo nucleare JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del 2015; questa volta però, il salto qualitativo è stato di grande rilevanza, perché gli emissari di Teheran e Washington sono riusciti a confrontarsi quasi senza filtri, con la sola mediazione dell’Oman che ha ospitato i colloqui a Mascate o nella sua sede diplomatica di Roma. Un altro incontro, fondamentale per compiere ulteriori passi verso una nuova intesa sul programma nucleare iraniano e per arrivare a una revoca almeno parziale delle sanzioni gravanti sulla Repubblica islamica, era previsto per domenica 15 giugno, ma è stato improvvisamente annullato dopo l’offensiva israeliana sull’Iran nella notte tra il 12 e il 13.

Israele ha infatti lanciato un massiccio attacco contro il territorio iraniano, colpendo oltre 300 obiettivi in diverse località e provocando almeno 78 morti e oltre 320 feriti, tra cui membri delle Guardie rivoluzionarie, scienziati legati al programma nucleare, civili, donne e bambini. Il tutto, mentre il Paese si preparava a celebrare la grande festa di Qadir-e Khom (la proclamazione ufficiale dell’Imamato di ‘Alī, cioè la sua designazione come successore spirituale e politico del profeta Maometto).
L’attacco è avvenuto qualche ora dopo l’adozione dell’ultima risoluzione del Consiglio dei governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA), datata 12 giugno 2025, con 19 voti favorevoli, 3 contrari e 11 astensioni. Il testo denunciava il mancato rispetto da parte dell’Iran degli obblighi di salvaguardia derivanti dal Trattato di non proliferazione, evidenziando l’assenza di chiarimenti credibili riguardo alle tracce di uranio rinvenute in tre siti non dichiarati: Lavisan-Shian, Varamin e Turquzabad. Inoltre, si contestava a Teheran la mancanza di trasparente collaborazione con gli ispettori dell’Agenzia, inclusi tentativi di alterazione dei siti per ostacolare le attività di verifica.
Sebbene la risoluzione non abbia portato automaticamente a un rinvio della questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, essa ha sollevato gravi preoccupazioni internazionali circa un possibile uso non pacifico del materiale nucleare iraniano. L’Iran ha definito il documento come politicamente motivato, annunciando in risposta l’apertura di un nuovo sito di arricchimento e il potenziamento delle centrifughe IR-6 nel sito di Fordow.
Anche il ministro degli Affari esteri dell’Iran Abbas Araghchi ha preso pubblicamente posizione, accusando su X i tre Paesi europei (E3) coinvolti nel JCPOA di aver fallito completamente la loro missione, per scelta o incompetenza, nonostante avessero avuto sette anni a disposizione per implementare le disposizioni dell’accordo.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, da parte sua, ha continuato a definire l’Iran una minaccia esistenziale, sostenendo che Teheran fosse a un passo dal disporre di armi atomiche: uno schema oramai collaudato da tempo, a cui è seguita la promessa che Israele non avrebbe mai tollerato una situazione simile e che, se necessario, Tel Aviv avrebbe distrutto tutte le basi e le infrastrutture legate al programma nucleare degli ayatollah.
Quindi è partita l’offensiva, ribattezzata Rising Lion (Leone nascente), su cui Netanyahu è stato categorico: un’iniziativa «preventiva, legittima e indispensabile», perché Teheran non stava solo occultando le attività illegali compiute, ma minacciava anche gli equilibri della regione. Nulla era lasciato al caso, neppure il nome dell’operazione: il simbolo del leone ha infatti un significato storico e politico, soprattutto per l’Iran del periodo pre-islamico, essendo stato utilizzato da diverse dinastie iraniane a partire dall’epoca achemenide (550 a.C. circa). Dunque, un richiamo ad antiche tradizioni e quasi un appello alla popolazione locale, con l’obiettivo di far leva su un certo tipo di nazionalismo.
Netanyahu ha inoltre lanciato un messaggio indiretto agli Stati Uniti e all’Europa, sostenendo che nessun accordo negoziato avrebbe potuto garantire la sicurezza di Israele quanto l’azione militare diretta.
La Dottrina Begin, che deve il suo nome all’ex primo ministro Menachem Begin, in merito è chiara: Israele si riserva il diritto di agire unilateralmente quando percepisce un pericolo imminente alla sua esistenza. Sulla base di questa motivazione, Tel Aviv giustificò nel 1981 il bombardamento del reattore nucleare iracheno Osirak, affermando esplicitamente che non avrebbe mai permesso a un Paese ostile di sviluppare armi nucleari. Condizioni, queste, che si sono ripetute pochi giorni fa.
A livello nazionale, il governo e la stampa iraniana hanno subito condannato l’attacco a sorpresa, assicurando che non sarebbe rimasto senza risposta.
Javan, media affiliato ai Guardiani della Rivoluzione islamica (Islamic Revolutionary Guard Corps, IRGC), ha pubblicato la dichiarazione di Ali Khamenei “biʾidhni-llāh باذن الله” (lett. «se Dio vuole»). Il testo riporta: «Il regime sionista, all’alba di oggi, ha compiuto un crimine nel nostro caro Paese con la sua mano sporca e insanguinata, rivelando più che mai la sua natura malvagia colpendo aree residenziali. Questo regime deve aspettarsi una dura punizione. La mano potente delle forze armate della Repubblica islamica non lo lascerà impunito, se Dio vuole. Negli attacchi nemici, alcuni comandanti e scienziati sono caduti martiri. I loro sostituti e colleghi assumeranno immediatamente i propri compiti, con l’aiuto di Dio. Con questo crimine, il regime sionista ha preparato per sé un destino amaro e doloroso, che sicuramente subirà». La Guida suprema ha inoltre puntato il dito contro gli Stati Uniti, accusandoli di essere corresponsabili dell’offensiva.

Il quotidiano riformista E’temad ha invece pubblicato in prima pagina nell’edizione dello scorso sabato mattina le dichiarazioni di Donald Trump, utilizzando questo titolo:
«Trump: sapevamo tutto, mi sarebbe piaciuto vedere un accordo; possono ancora raggiungerne uno, non è ancora troppo tardi».
Nell’articolo di approfondimento si evidenzia anche come Trump abbia implicitamente assicurato il proprio consenso agli attacchi contro l’Iran, nonostante i negoziati in corso, sottolineando che, in ogni caso, gli Stati Uniti resteranno per Israele un alleato strategico.
In un’altra nota ufficiale, si afferma inoltre che «la Procura di Yazd ha annunciato l’arresto di cinque persone, accusate di aver diffuso contenuti volti a turbare l’opinione pubblica e di aver filmato luoghi classificati come sensibili, in violazione delle norme sulla sicurezza nazionale. La stessa Procura ricorda inoltre che, ai sensi dell’articolo 8 della Legge per contrastare le azioni ostili del regime sionista contro la pace e la sicurezza, la pubblicazione di qualsiasi contenuto sui social media a sostegno del regime sionista terrorista è punibile con una pena detentiva da due a cinque anni di carcere».
Anche il presidente della Repubblica Masoud Pezeshkian ha pubblicato un messaggio sul sito ufficiale della presidenza, ribadendo la linea che Teheran intende seguire in risposta agli attacchi subiti: «La risposta legittima e determinata della Repubblica islamica dell’Iran farà pentire il nemico del suo gesto sconsiderato. In questo momento è fondamentale che il popolo eviti di dare ascolto alle voci e alle falsità diffuse nella guerra psicologica del nemico, mostrando invece unità, fiducia e collaborazione con le autorità».

L’agenzia di stampa Tasnim, vicina all’IRGC, ha invece pubblicato un articolo in merito all’intensa attività diplomatica intrapresa dal presidente russo Vladimir Putin, che ha telefonato sia a Pezeshkian che a Netanyahu.
Nel testo si riporta che il leader del Cremlino ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi e denunciato l’iniziativa israeliana come una chiara violazione del diritto e delle norme internazionali, precisando tuttavia al tempo stesso che la Russia è pronta a mediare per contribuire a una de-escalation.
Il quotidiano Shargh, di orientamento riformista, ha pubblicato invece un approfondimento sulla più giovane vittima iraniana degli attacchi, una bambina di soli 2 anni di nome Yaran Ghasemian, titolando: «Identificata la più piccola martire dell’Iran – Chi era Yaran Ghasemian?»
Il giornale ha inoltre accompagnato la notizia con la foto di una bimba, suscitando forti reazioni emotive e indignazione nell’opinione pubblica. Per quanto riguarda invece le interlocuzioni con la diplomazia internazionale, Shargh si è soffermato sulla conversazione telefonica avvenuta tra il ministro degli Esteri Araghchi e l’Alta rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di Sicurezza Kaja Kallas.
«Kaja Kallas – si legge – ha avuto un colloquio telefonico con Abbas Araghchi, ministro degli Affari esteri della Repubblica islamica dell’Iran, durante il quale sono stati discussi gli sviluppi recenti nella regione in seguito all’aggressione militare del regime sionista contro l’Iran».
«Il ministro degli Affari esteri – prosegue l’articolo – ha condannato fermamente le azioni del regime sionista, che ha violato la sovranità e l’integrità territoriale dell’Iran, attaccando impianti nucleari e aree residenziali, provocando la morte di diverse figure militari, docenti universitari, donne e bambini iraniani. Ha inoltre richiesto una reazione forte da parte della comunità internazionale e una condanna globale dell’aggressione israeliana. Il ministro ha sottolineato che il governo e il popolo iraniano si aspettano seriamente che tutti i Paesi che affermano di sostenere la pace e lo stato di diritto condannino questi atti criminali ed esercitino pressioni sul regime sionista affinché cessi le aggressioni e il disprezzo del diritto internazionale».
Sulla piattaforma X, Kallas ha constatato che «La situazione in Medio Oriente è pericolosa», aggiungendo che «la diplomazia resta la via migliore da seguire» e di essere «pronta a sostenere qualsiasi sforzo diplomatico volto alla de-escalation».

Appare tuttavia chiaro che l’offensiva israeliana si colloca in un contesto politico e diplomatico estremamente complesso, e sotto taluni aspetti compromesso: da quando infatti la prima amministrazione Trump ha deciso di ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dal JCPOA, facendo di fatto naufragare l’accordo e tornando alla politica della massima pressione sanzionatoria nei confronti di Teheran, il sistema iraniano (Nezam) ha optato per una decisa virata verso Oriente, privilegiando l’interlocuzione – e il rafforzamento delle relazioni – con la Russia e la Cina.
Per quanto i canali di comunicazione con l’Occidente non si siano mai del tutto interrotti, è evidente che i rapporti siano oramai ridotti a mere interlocuzioni formali, e che gli ayatollah – soprattutto dall’esplosione del conflitto nella Striscia di Gaza – ritengano Stati Uniti e Paesi europei solidamente schierati sulle posizioni israeliane.
La situazione è notevolmente peggiorata con la prosecuzione degli attacchi sull’Iran, accompagnati da una inequivocabile precisazione da parte di Tel Aviv: Israele non ha lanciato una semplice offensiva, ma è a tutti gli effetti in guerra. La prima risposta di Teheran si è sostanziata nel lancio di oltre 270 missili, 22 dei quali hanno colpito il bersaglio causando almeno 3 morti. La contabilità del conflitto è però inevitabilmente in continua evoluzione, e già al 15 giugno si annoveravano 13 morti e 380 feriti.
Dopo l’attacco ai siti per l’arricchimento dell’uranio, Israele ha avviato una nuova fase del conflitto, colpendo il South Pars – il più grande giacimento di gas naturale al mondo – e altre infrastrutture energetiche, nonché edifici istituzionali come il ministero degli Esteri, uffici e strutture militari. Gli attacchi non hanno poi risparmiato le infrastrutture e gli edifici civili, provocando centinaia di vittime.
Nonostante la TV nazionale e i media filogovernativi iraniani cerchino di ridimensionare l’entità dei danni provocati dagli attacchi israeliani, numerose foto e video pubblicati dai cittadini mostrano scene di distruzione diffusa.
Nel frattempo, le notizie riportate dalla stampa e dai social media governativi si concentrano soprattutto sulla risposta militare dell’Iran contro Israele, ma dedicano anche spazio agli attacchi di Tel Aviv su Teheran e le altre città della Repubblica islamica. Il quotidiano online Entekhab, di orientamento moderato-riformista, ha pubblicato il messaggio di Hossein Kermānpour, portavoce del ministero della Salute iraniano sul social network X:
«Il tragico risultato di questo falso slogan secondo cui “il governo israeliano non ha nulla contro il popolo iraniano e colpisce solo obiettivi militari!” è che, dopo 65 ore dall’aggressione del regime sionista, il numero totale di ricoverati e deceduti ha raggiunto 1.481 persone. Di queste, 1.277 sono attualmente ricoverate negli ospedali universitari del Paese, e oltre il 90% sono civili! Finora, 522 persone sono state dimesse, mentre 224 tra donne, uomini e bambini sono stati uccisi».
Aggiungendo: «in quanto medico, chiedo agli operatori sanitari del mondo e ai miei colleghi di lingua persiana in tutto il mondo di aiutare a fermare questo genocidio!».
Shirin Zakeri