Le elezioni che si sono tenute lo scorso 3 aprile in Serbia hanno messo nuovamente alla prova il delicato equilibrio tra Pristina e Belgrado. A far discutere, questa volta, è stato il mancato allestimento di seggi nel nord del Kosovo, dove risiedono oltre 100.000 cittadini di etnia serba. Circa 15mila elettori hanno così dovuto oltrepassare il confine, recandosi nei quattro comuni serbi di Bujanovac, Kursumlija, Raska e Tutin, per esercitare il diritto di voto. Una situazione anomala se si considera che, fin dall’indipendenza del Kosovo, l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (Osce) ha sempre potuto allestire seggi nel paese per agevolare il voto della comunità serba. In quest’ultima tornata elettorale, invece, da Pristina sono arrivate solo due “concessioni”: la predisposizione di un servizio di bus per accompagnare gli elettori oltreconfine o, eventualmente, la possibilità di farli votare nell’ufficio di collegamento serbo a Pristina. A spiegare il motivo di questo cambio di rotta è stato il primo ministro kosovaro Albin Kurti, che ha imputato la mancata apertura di seggi all’assenza di un accordo preliminare con Belgrado. Un compromesso ritenuto fondamentale dal Kosovo, paese che – come ricordato dal premier – non sarebbe tenuto ad ospitare elezioni di un altro Stato all’interno dei propri confini. La questione, tuttavia, è più complessa e si lega a dinamiche storiche ancora oggi irrisolte.
Le frequenti tensioni tra Pristina e Belgrado sono il prodotto di quanto accaduto alla fine degli anni Novanta, periodo della guerra tra le forze militari serbe e l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk – Ushtria Çlirimtare Kombëtare). All’origine del conflitto, la volontà di Pristina di separarsi dalla Repubblica federale di Jugoslavia – all’epoca composta da Serbia, Montenegro e dalle regioni autonome del Kosovo e della Vojvodina. Mentre il Kosovo giustificava la guerra e il proprio desiderio di indipendenza come una reazione alle crescenti repressioni perpetrate dai serbi, le forze militari di Belgrado accusavano l’esercito kosovaro di aver innescato un immotivato conflitto fratricida. Retoriche opposte e divisive che hanno provocato, nell’arco di pochi mesi, un’escalation di crimini e atrocità, terminati soltanto con l’intervento militare della Nato tra il marzo e il giugno 1999.
Nonostante il coinvolgimento dell’Alleanza atlantica abbia costretto le parti al tavolo negoziale e sancito definitivamente la fine della guerra, le ostilità tra serbi e kosovari non sono mai davvero cessate. Con il passare degli anni il desiderio di indipendenza di Pristina è aumentato fino a concretizzarsi il 17 febbraio 2008, data dell’istituzione dell’autoproclamata Repubblica del Kosovo – un’entità territoriale slegata de facto dalla Serbia e posta sotto il protettorato delle Nazioni unite. Il percorso del nuovo Kosovo indipendente si è ben presto rivelato, tuttavia, tutt’altro che in discesa. Il primo problema è stato quello del riconoscimento internazionale, dovuto principalmente all’opposizione di Belgrado – forte dell’appoggio di Mosca, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu – all’ingresso di Pristina nelle Nazioni unite. Alla questione del riconoscimento si è poi aggiunta quella dei serbi del Kosovo, circa 120.000 persone che, all’indomani dell’indipendenza, sono diventate a tutti gli effetti una minoranza all’interno di un paese straniero. Distribuiti nei dieci comuni di Gracanica, Klokot, Kosovska Mitrovica, Leposavic, Novo Brdo, Partes, Ranilug, Strpce, Zubin Potok e Zvecan, i serbi del Kosovo hanno sempre lamentato discriminazioni e vessazioni da parte del governo kosovaro, alimentando continue ostilità tra Pristina e Belgrado.
I principali tentativi di normalizzare la situazione della comunità serba sono riconducibili all’Ue, che ormai dal 2013 propone l’istituzione di un’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo (Zajednica Srpskih Opština, Zso). L’obiettivo della Zso sarebbe quello di garantire ai dieci comuni a maggioranza serba autonomia in ambito economico, educativo e sanitario, nel tentativo di ridurre il più possibile gli elementi di attrito tra Pristina e Belgrado. In un primo momento sembrava che la proposta di Bruxelles fosse stata accolta sia dal governo serbo sia da quello kosovaro, lasciando auspicare un potenziale miglioramento delle relazioni tra i due paesi. Con il passare del tempo, tuttavia, il Kosovo ha cominciato a mostrare una graduale reticenza al progetto, nel timore di veder nascere uno “Stato serbo all’interno dei propri confini” sul modello della Republika Srprska di Bosnia Erzegovina. Timore che progressivamente si è trasformato in una vera e propria opposizione alla Zso, che oggi versa in una fase di stallo nonostante i frequenti tentativi europei di rilanciare le trattative.
Se riletta alla luce delle dinamiche che hanno interessato Pristina e Belgrado negli ultimi anni, la controversia emersa in occasione delle ultime elezioni non dovrebbe dunque stupire. Nel caso della Serbia, i tentativi di allestire seggi in Kosovo sono riconducibili sia al mancato riconoscimento dell’indipendenza di Pristina, sia alla volontà di tutelare i serbi che ancora oggi risiedono nel territorio kosovaro. Per quanto riguarda il Kosovo, invece, il rifiuto di ospitare le elezioni serbe può essere letto come un ulteriore tentativo di affermare la propria sovranità. Posizioni opposte che hanno provocato, inevitabilmente, l’ennesimo incidente diplomatico. Appena informato del mancato allestimento dei seggi, Aleksandar Vučić – che nelle ultime elezioni serbe è stato riconfermato presidente della Repubblica – ha accusato Pristina di voler alimentare un nuovo conflitto e di aver impedito il voto per umiliare la minoranza serba. Contestualmente, i serbi di Kosovska Mitrovica e di altre enclave del Kosovo sono scesi in piazza per denunciare la violazione dei loro diritti e per protestare con il premier kosovaro Kurti. Immediata e altrettanto dura la risposta di quest’ultimo, che in una lettera indirizzata alle Istituzioni europee ha accusato Belgrado di voler mantenere “strutture amministrative illegali” nel territorio kosovaro. Un appello che, tuttavia, ha sortito l’effetto opposto: dai rappresentanti del Quint – Francia, Inghilterra, Italia, Stati Uniti e Regno Unito – è arrivata una condanna comune proprio nei confronti di Pristina, colpevole di «non aver rispettato il principio di protezione dei diritti delle minoranze etniche» e di «non essere allineata ai valori europei». Anche la posizione occidentale nei confronti di Belgrado, d’altronde, è stata poco flessibile. Il Quint infatti, in virtù della sua funzione di indirizzo e controllo, avrebbe potuto sostenere attivamente l’allestimento di seggi Osce in Kosovo e agevolare così il voto della minoranza serba. In occasione di queste ultime elezioni, invece, si è limitato a condannare la decisione di Pristina senza esporsi ulteriormente.
La crescente rigidità dell’Occidente nei confronti di Pristina e Belgrado è sì una reazione all’incapacità dei due governi di trovare soluzioni a controversie che ormai si trascinano da anni, ma è anche il frutto di una fase storica particolarmente delicata. Se già da tempo Usa e Ue monitoravano da vicino le tensioni tra Serbia e Kosovo, con l’escalation della crisi russo-ucraina l’attenzione ai due paesi è infatti aumentata ulteriormente. Questo perché il conflitto tra Mosca e Kiev minaccia di avere ripercussioni sulla vicina regione dei Balcani occidentali, già caratterizzata da un elevato livello di instabilità, e di esacerbare – in particolar modo – le ostilità tra Pristina e Belgrado.
In conclusione, le divergenze tra Serbia e Kosovo sembrano, almeno per il momento, destinate ad intensificarsi. A quattordici anni dell’autoproclamazione del Kosovo, Belgrado continua a insistere affinché la minoranza serba ottenga maggiori tutele e Pristina sembra sempre meno disposta a concessioni. Usa e Ue, dal canto loro, non riescono a trovare soluzioni concrete per normalizzare le relazioni tra i due paesi. A farne le spese, come accaduto in queste ultime elezioni, è la comunità serba in Kosovo, “colpevole’”di trovarsi all’interno dei confini sbagliati.
Carlotta Maiuri