L’eccezione del Kosovo nella disciplina anti-terrorismo: il caso dei foreign fighters

La lotta al terrorismo di matrice islamica è un fenomeno che accomuna molti paesi. La comunità internazionale ha visto crescere nel corso degli anni il numero dei cittadini europei che hanno deciso di lasciare il loro paese d’origine per combattere a fianco dello Stato islamico (Isis o Daesh). Il fenomeno dei combattenti stranieri aveva già, in particolare, interessato i Balcani a causa del conflitto degli anni ’90, quando i primi foreign fighters si recarono in Bosnia per difendere la comunità musulmana bosniaca da serbi e croati. In seguito, l’avvento dell’Isis spinse molti cittadini di Bosnia e Kosovo verso la Siria a sostegno di Daesh. Con la sconfitta territoriale del Califfato nel 2019 si è posto, a livello giuridico, ma anche sociale, il problema della disciplina da applicare ad un loro eventuale rimpatrio nei paesi di appartenenza. In questo contesto il Kosovo rappresenterebbe un’eccezione nel panorama europeo, avendo adottato una politica che privilegia il rientro dei suoi cittadini e che tenta di adottare un sistema che sia anche di reintegrazione, seppure ancora con diverse criticità.

Una visuale dall’alto di Pristina, la capitale del Kosovo. Fonte: Wikimedia Commons

La difficoltà nella scelta della disciplina giuridica più efficace è, nel caso del Kosovo, di particolare rilevanza. Da qui, infatti, sono partiti la maggior parte dei foreign fighters. Secondo il Kosovar Center for Security Studies sarebbero più di 300, un numero molto elevato in riferimento a quello della popolazione residente. Il tasso di presenze è così alto innanzitutto a causa dei processi di islamizzazione che hanno interessato il territorio, dove quasi l’intera popolazione è di religione musulmana. Un’altra ragione risiede nelle forme di finanziamenti ricevuti inizialmente dall’Arabia Saudita. Questi risalirebbero alla fine della guerra in Kosovo, a partire dal 1999, quando cospicue somme furono impiegate per la costruzione di diverse moschee, luoghi in cui imam sauditi avrebbero svolto attività di proselitismo. Arabia Saudita, Kuwait, Turchia, Emirati Arabi e Qatar avrebbero impiegato diverse ong per immettere nel paese milioni di euro destinati alla costruzione delle moschee. Numerosi cittadini musulmani dei Balcani, inoltre, partirebbero per l’Arabia Saudita ricevendo in cambio una sorta di retta mensile o borse di studio proprio per frequentare scuole islamiche. In sostanza, si sfrutterebbe la condizione di disagio socio-economico dei reclutati per compensarla con elargizioni in denaro al fine di ampliare la propria sfera di influenza nei Balcani occidentali. Il Kosovo, infatti, è attraversato da una forte crisi economica e un elevato tasso di disoccupazione, ragioni che rendono una cospicua fascia della sua popolazione più sensibile al reclutamento tramite propaganda. Non sembra un caso che il maggior numero dei reclutati vivesse nelle zone rurali del paese, più povere e degradate. Statisticamente, poi, i destinatari dell’attività di proselitismo sono soprattutto i giovani, e il Kosovo ha mediamente una popolazione giovanissima. Se da un lato la situazione di state-building del paese rende più complicato un controllo efficace del fenomeno, dall’altro, e probabilmente proprio nel tentativo di superamento di queste criticità, il Kosovo ha adottato una legislazione anti-terrorismo che rappresenta un unicum nel panorama dei Balcani e in quello europeo. In generale, il timore è di ammettere sul proprio territorio cittadini considerati potenziali terroristi, con tutti i rischi che questo comporta. Ciò ha portato molti governi europei ad essere riluttanti ad accoglierli, arrivando persino a revocare loro la cittadinanza, come nel caso del Regno Unito. La strategia di Pristina è quella, invece, di aprire ai rimpatri e alla reintegrazione, anche se in modo non del tutto efficace.

Albin Kurti, Primo Ministro del Kosovo al suo secondo mandato.
Fonte: Wikipedia.

Il Kosovo appare più propenso ad accettare i cittadini radicalizzati probabilmente perché facilitato dalla sua scarsa dimensione e dal fatto che i combattenti non possiedono, nella maggior parte dei casi, una seconda cittadinanza. Il dato li differenzia da altri foreign fighters europei, che godono spesso della doppia cittadinanza.  Questo elemento è stato più volte impiegato dal Governo di origine come espediente per deresponsabilizzarsi e destinare al paese di altra nazionalità il returnee.

In particolare, il governo di Pristina ha adottato un piano nazionale che prevede tre punti chiave: misure punitive, riabilitative e di reinserimento. Per quanto riguarda la legislazione applicabile, la particolarità del Kosovo sta nell’essere l’unico paese d’Europa ad aver adottato una legislazione ad hoc (Legge 2015), invece che aggiungere dei provvedimenti ad un corpo di leggi già esistenti. Questa prevede il divieto per i cittadini kosovari di partecipare a conflitti armati al di fuori del territorio nazionale e quello di reclutare combattenti, così di fatto rendendo reato l’attività compiuta come foreign fighter tra le fila dello Stato islamico. La legge ne disciplina inoltre la reclusione fino ad un massimo di 15 anni. Bisogna però distinguere tra uomini e donne, perché il trattamento previsto cambia a seconda del sesso del rimpatriato. La disposizione è infatti particolarmente rigida in riferimento agli uomini: la maggior parte viene immediatamente incarcerata in attesa di processo, ma questo sistema rende più difficile una loro reintegrazione, rispetto a donne e bambini. Le ragioni risiedono nel fatto che, in generale, con precedenti penali diventa più complicato trovare un’occupazione e il sistema di reintegrazione non è mai di per sé sufficiente in tal senso.

Donne e bambini, invece, vengono inseriti in un centro d’accoglienza per le prime 72 ore dall’arrivo, durante le quali sono sottoposti a controlli medici ed accertamenti psicologici. Al termine di questa procedura per le donne viene disposto l’arresto domiciliare in attesa di processo. Se vi sono bambini coinvolti, questi sono autorizzati ad andare a scuola. Su questo tema, nel 2019, il governo ha creato un’Agenzia apposita che si occupa del sostentamento di donne e bambini, fornendo loro cibo, vestiti, assistenza psicologica e la possibilità di seguire dei corsi rieducativi. Per chi si trova invece in carcere è richiesta la frequentazione di un programma di de-radicalizzazione. La prossimità e l’omogeneità della popolazione del Kosovo giocherebbe dunque un ruolo importante nel processo di reintegrazione.

Nel 2019 il Governo kosovaro ha anche modificato il proprio codice penale, coprendo tutti gli aspetti che riguardano il finanziamento al terrorismo. Per facilitare, inoltre, l’individuazione dei potenziali terroristi, sono state inserite delle disposizioni riguardanti l’uso di documenti falsi.

La compagine di governo del Kosovo. Fonte: KosovaOggi.

I Balcani occidentali si presentano come un’area che vanta un numero di foreign fighters elevato e questo dato rende la regione particolarmente esposta. Per queste ragioni il radicalismo islamico potrebbe sfruttare le criticità, le sue divisioni interne e la mancanza di un sistema di controllo capillare.

In questa cornice, il Kosovo non rappresenta un’eccezione, ma vanta rispetto al resto d’Europa un’innovativa disciplina giuridica. Elemento ancor più caratterizzante è la decisione del paese di assumersi la responsabilità dei propri cittadini, organizzando il loro rimpatrio. Questi fattori, però, sembrano non essere ancora sufficienti. Le attuali condizioni socio-economiche, infatti, lo lasciano esposto ad una crescita del reclutamento di foreign fighters. Molti returnee sono rientrati precedentemente all’adozione della Legge del 2015 ed essendo le leggi penali irretroattive restano esclusi dalla sua applicazione. Tuttavia, la maggiore difficoltà nel contrastare questo fenomeno risiede nella necessità di dover affiancare legislazione anche l’adozione di politiche più di lungo termine: riforme strutturali atte a migliorare il tessuto socio-economico del paese. Se per alcuni combattenti la decisione di aderire alla causa del jihadismo è probabilmente una scelta ideologica, non vanno sottostimati gli effetti dell’emarginazione sociale e cause di natura economica. Migliorare le condizioni di vita dei cittadini kosovari potrebbe quindi ridurre il rischio di proselitismo. Si tratta di riforme auspicabili, in riferimento ad un fenomeno che, in base ai dati evidenziati finora, risulta particolarmente complesso da gestire ex post.

Chiara Vilardo