Libia: l’impatto della lunga crisi sugli sfollati interni

Le insurrezioni  che hanno caratterizzato la regione mediorientale a partire dal 2011 hanno rappresentato la crisi definitiva del potere legittimo di diversi governi. Le autocrazie hanno iniziato una fase di autodistruzione dall’interno, consumate dalla crisi economica, dalla diffusa corruzione, dalla mancata fornitura di servizi di base alla popolazione e dal sempre più critico aumento della disoccupazione giovanile. Le “rivolte arabe” – così come le aveva definite Massimo Campanini – hanno portato, ad esempio, alla cacciata dei governanti in Tunisia, Egitto e Libia, a rivolte in Siria e Bahrein, così come a manifestazioni di entità minore in Algeria e Marocco. Nel mezzo delle continue proteste, violenze e disordini politici, è cresciuto il numero degli sfollati a seguito del conflitto in Libia, così come in Siria e in Yemen. In ciascuno di questi contesti, gli spostamenti interni si sono verificati in o verso aree già in difficoltà, portando a un peggioramento della situazione preesistente.

Per quanto riguarda la Libia, la lunga fase di transizione, iniziata con la definitiva caduta del regime guidato da Moammar Gheddafi, si è manifestata irta di ostacoli e dall’esito ancora oggi incerto. Il collasso del precedente regime ha inevitabilmente condotto il paese a una fase di instabilità cronica, frutto della nuova interrelazione tra i diversi livelli identitari presenti nel contesto libico: l’identità nazionale, l’appartenenza regionale e l’affiliazione clanica-tribale. Tutti e tre i livelli avevano, e hanno tutt’oggi, a loro volta al proprio interno motivazioni di conflittualità e rivalità come manifestato per esempio dagli scontri tra le diverse milizie o dalla richieste di maggiore autonomia avanzate dalla Cirenaica al governo di Tripoli nel corso di questo decennio. Diversi fattori, disgreganti o centrifughi, hanno posto sfide di difficile soluzione, mentre la capacità di mettere il paese in sicurezza è venuta sempre meno. La disgregazione delle forze militari del regime gheddafiano ha avuto come esito l’occupazione del territorio libico da parte delle milizie ribelli che si sono costituite con il passare del tempo come micro‐gruppi di potere con un controllo territoriale circoscritto. Queste non si sono rapidamente disarmate e inglobate in un unico esercito nazionale, finendo per costituire entità autonome di governo nelle diverse città.

Durante, e subito dopo, la fine del conflitto del 2011, coincidente con la cattura e l’uccisione di Gheddafi, si è assistito a uno dei più grandi flussi migratori mai registrati. Tale flusso era contraddistinto da alcune caratteristiche. Le persone appartenevano principalmente a cinque distinte categorie di sfollati: lavoratori migranti, cittadini libici, boat-people diretti verso l’Unione europea, sfollati interni, richiedenti asilo e rifugiati che in precedenza risiedevano in Libia. I paesi verso cui fuggivano libici e migranti erano in alcuni casi anch’essi nel bel mezzo di rivoluzioni, ciononostante i confini tunisino ed egiziano rimasero aperti. Si stima inoltre che circa 2,5 milioni di lavoratori migranti vivessero in Libia prima della rivolta; molti dei sub-sahariani tra loro erano visti con estremo sospetto a causa di presunte connessioni con il precedente regime, e per tale motivo furono vittime di aggressioni, abusi e discriminazioni durante e dopo il conflitto. I tentativi di alcuni libici di cercare salvezza dalle violenze attraversando il Mediterraneo ha scatenato timori tra politici e popolazioni europee per i troppo arrivi sulle coste della sponda Nord. Ciò ha stimolato un’intensa attività legislativa e di pattugliamento delle acque per gestire tali flussi.

Come i rifugiati, gli sfollati interni – Internally displaced persons (IDP’s) – sono civili costretti a fuggire da guerre o persecuzioni. A differenza dei rifugiati, però, non attraversano un confine internazionale riconosciuto. Restano quindi all’interno del paese di origine. Il conflitto civile libico ha costretto centinaia di migliaia di persone a fuggire dalle proprie case all’interno del loro stesso paese e in alcuni casi ad attraversare il confine per trovare sicurezza nei paesi vicini, in particolar modo in Tunisia. La guerra è stata particolarmente intensa in alcune aree: oltre alle città principali (Tripoli, Bengasi e Misurata), sono state coinvolte città come Ajdabiya, Bani Walid e Sirte. In queste città, assedi prolungati o attacchi con bombardamenti e combattimenti strada per strada hanno portato a significativi sfollamenti. La maggior parte degli sfollati interni si rifugiava nelle aree urbane, spesso fuggendo in centri vicini o trasferendosi in quartieri più sicuri all’interno della stessa città. La maggior parte soggiornava presso parenti o famiglie ospitanti, oppure cercava rifugio in edifici pubblici, comprese scuole, fabbriche o cantieri. Sono stati segnalati sfollati interni che soggiornavano in insediamenti improvvisati nel deserto, per paura di essere coinvolti negli scontri tra le due fazioni.

Immagine di bambini sfollati in Libia. Fonte: UNOCHA

La presenza di mine antiuomo e di altri ordigni inesplosi nelle aree di conflitto ha reso più difficile per gli sfollati interni un ritorno in sicurezza presso la propria residenza. Il conflitto ha interrotto le linee di rifornimento, ha danneggiato le infrastrutture e ha lasciato la popolazione a dover affrontare la carenza di acqua potabile, carburante e medicine. Ha ridotto al contempo l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria. In migliaia non sono stati in grado di tornare alla propria residenza perché distrutta, danneggiata o occupata da altri. Alcuni gruppi hanno subito attacchi per rappresaglia, in particolare quelli considerati fedeli al governo di Gheddafi: a mo’ di esempio, si stima che a 30.000 abitanti della città di Tawergha, a sud di Misurata, fosse stato vietato il ritorno alla propria residenza.

Il forte flusso di migranti nelle prime fasi della crisi è stato indirizzato verso Tunisia ed Egitto. In tale periodo, la Tunisia, nonostante le difficoltà interne, ha mantenuto una politica di porte aperte nei confronti dei rifugiati libici. Nel corso dell’anno i cittadini libici hanno ricevuto di fatto protezione temporanea nel paese confinante dopo essere fuggiti dal conflitto. Il campo di Choucha, al confine tunisino con la Libia, ha ospitato al suo apice quasi 20.000 rifugiati in fuga dall’ex colonia italiana. Molti altri erano concentrati in aree urbane e aree semiurbane dove sono stati generosamente accolti dalle comunità di accoglienza, in particolare al sud. Pochi mesi dopo, tuttavia, la Tunisia ha ripreso l’applicazione delle sue leggi sull’immigrazione, impedendo l’ingresso a chi sprovvisto della necessaria documentazione.

Gli stranieri hanno tentato rapidamente di lasciare il paese nordafricano. Quelli arrivati in Ciad e Niger non hanno dovuto affrontare le complicazioni di quelli che, invece, hanno scelto come via di fuga Egitto e Tunisia. Questi ultimi sono stati “stoccati” in campi temporanei per rifugiati costruiti vicino ai confini, in condizioni disumane fino al trasferimento nei paesi di origine. Altri immigrati, invece, hanno deciso di rimanere in Libia: tale scelta era obbligata in alcuni casi per l’impossibilità di tornare nei loro paesi d’origine, in altri era una decisione presa perché protetti o dipendenti da famiglie libiche. Altri ancora hanno scelto di combattere , sperando in una futura buona ricompensa e possibilmente di godere di vantaggi aggiuntivi come la promessa di ottenere la nazionalità libica. Alcuni di questi erano figli di famiglie che vivevano nella parte meridionale della Libia da decenni: ciadiani o nigeriani o anche libici senza status legale, tutti desiderosi di essere naturalizzati. Altri gruppi sono stati portati in Libia durante la rivolta del 2011 appositamente per unirsi alle forze di Gheddafi. A quel tempo le voci e i rapporti secondo cui l’ex leader avrebbe reclutato mercenari sub-sahariani per uccidere i ribelli e compiere stupri e altre violenze erano all’ordine del giorno. Tali circostanze hanno influito negativamente sulla situazione di quegli immigrati che erano bloccati nel paese.

Fonte: Human Rights Watch

Il secondo conflitto civile scoppiato nel 2014 ha causato nuovamente sfollamenti forzati di civili su vasta scala, sia attraverso il confine con la Tunisia che all’interno della Libia stessa. Coloro che sono fuggiti oltre confine nel 2014 includevano persone scampate alla violenza generalizzata e al caos istituzionale creatosi nel paese dopo il crollo del nascente governo centrale. L’elezione contestata nel maggio del 2014 ha portato alla nascita di due separati governi e due parlamenti – uno con sede a Tripoli e l’altro situato a Tobruk – che hanno dato vita a un conflitto che ha visto la fine solo nell’agosto del 2020. La violenza tra le due fazioni ha causato oltre 340mila sfollati nel solo 2014, il dato più alto dal 2011: molte delle persone che erano ritornate dopo il primo conflitto sono state costrette a fuggire nuovamente. La prosecuzione della battaglia tra le diverse milizie e l’entrata in scena dello Stato islamico – che ha approfittato dell’instabilità generale e dalla mancanza di un esercito centralizzato in grado di tenere sotto controllo l’evolversi della situazione – hanno causato lo sfollamento di ulteriori 100mila persone. Nonostante la nascita di un Governo di accordo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, alla fine del 2015, il conflitto tra le due fazioni è proseguito senza sosta. Il 2016 è stato un importante punto di svolta nelle dinamiche di sfollamento e rimpatrio nel paese. Nella prima metà dell’anno, molti sfollati interni risiedevano principalmente nelle regioni di Bengasi, Al-Wahat, Tripoli e Misurata. Il numero di sfollati identificati è aumentato tra maggio e agosto 2016 a causa dei combattimenti a Sirte. Con l’attenuazione del conflitto in varie parti del paese nell’ultima parte dell’anno, il numero di sfollati interni identificati è diminuito mentre è aumentato il numero di rimpatriati nel proprio paese di origine. La maggior parte degli sfollati interni tornati alle loro case nel 2015 e nel 2016 provenivano dalle province di Al-Jifarah, Bengasi, Al-Jabal Al-Gharbi e Tripoli. Il 2016 ha contato circa 156mila sfollati, anche se negli anni successivi (2017 e 2018) si è assistito ad una riduzione dei numeri complessivi. Fin quando nell’aprile del 2019 l’assedio lanciato alla capitale Tripoli da parte dell’autoproclamato Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar e l’inasprimento del conflitto hanno generato circa 215mila nuovi sfollati (la cifra più alta dal 2014). Circa 170mila sfollati da Tripoli, la maggior parte bambini, è stata la conseguenza della battaglia per la conquista della capitale.

Fonte dati: InternalDisplacement.org – Elaborazione dati OSMED

Tuttavia, nell’ultimo periodo la situazione pare essere migliorata. La diminuzione del numero degli sfollati è da collegare alla fine del conflitto armato, raggiunta grazie all’accordo sul cessate il fuoco firmato tra le due fazioni rivali a Ginevra nell’ottobre del 2020. Secondo il report dell’Internal Displacement Monitoring Centre (iDMC), alla fine del 2021 gli sfollati presenti in Libia ammontavano a circa 160mila. Di questi si stima che circa 77mila fossero in condizioni di insicurezza alimentare e bisognosi di assistenza. Diverse associazioni della società civile in difesa degli sfollati interni chiedono alle autorità oggi presenti di ripristinare i diritti persi durante il conflitto. Per esempio, l’Associazione degli sfollati interni di Bengasi ha criticato il governo per il suo “silenzio e abbandono” nei confronti delle loro sofferenze in una dichiarazione rilasciata a otto anni dal loro sfollamento forzato dalle residenze del capoluogo cirenaico.

La maggior parte dei dati citati sono conseguenza del conflitto ultradecennale che ha sconvolto l’ex colonia italiana e del perdurante stato di insicurezza e violenza che ha costretto migliaia di persone ad abbandonare la propria casa di residenza per trovare un luogo più sicuro e lontano dagli scontri tra le fazioni rivali. I conflitti, abbinati alla perdurante crisi economica e alle ulteriori difficoltà causate dal cambiamento climatico, contribuiscono a rendere cronico lo sfollamento nel paese. Senz’ombra di dubbio, la rivolta del 2011 è stata la miccia che ha dato il via al divampare di un incendio di cui ancora oggi non si riesce a vedere la fine. Un contesto politico, quello venutosi a creare dopo la caduta di Gheddafi, che ha visto il proliferare di milizie e mercenari stranieri, guidati il più delle volte solo da fattori economici. Proprio la mancanza di un organo centrale in grado di tenere a bada il disordine complessivo è stata la causa del diffondersi di una sicurezza do it yourself, in cui il più forte fa le veci di padrone e gli “ultimi” sono costretti a lasciare il loro posto se vogliono salva la vita. Al contempo, l’impatto economico dello sfollamento rappresenta un onere aggiuntivo per tutto il paese e la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente complicato la situazione preesistente. Nonostante gli attuali sforzi diplomatici in Libia, guidati in particolar modo dall’Onu, la crisi politica pare essere ancora distante da una soluzione definitiva. Una stabilizzazione del paese avrebbe sviluppi positivi anche per gli sfollati e segnalerebbe un gradito cambiamento nel e per il paese. Oltre ad essere in gioco il futuro di centinaia di migliaia di persone, è in gioco anche il futuro dell’intera Libia.

Mario Savina