Bibi e Joe: una difficile relazione

Il partenariato tra Stati Uniti e Israele rappresenta uno dei pilastri della politica americana verso il Medio Oriente. Negli ultimi mesi, tuttavia, questa “relazione speciale” è entrata in una fase di forte tensione. I rapporti tra l’amministrazione americana guidata da Joe Biden e il governo israeliano presieduto da Benjamin “Bibi” Netanyahu sono significativamente in contrasto su diverse questioni di primaria importanza, fra cui spiccano il processo di pace israelo-palestinese e il futuro stesso della democrazia israeliana.  

Joe Biden (a sinistra) e Benjamin Netanyahu (a destra) nel 2016. Fonte: Wikimedia Commons.

L’alleanza con Israele si basa su elementi ben consolidati come i valori comuni, considerazioni strategiche e aspetti storici e culturali che legano i due paesi. Il sostegno di Washington è stato fondamentale nel garantire la fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Questo sostegno è rafforzato dai comuni valori democratici che caratterizzano gli USA e Israele e da alcuni fattori politici e culturali che rendono particolarmente solido il legame fra questi due Stati. Le due comunità ebraiche più numerose al mondo si trovano infatti proprio in Israele e negli Stati Uniti, e numerose organizzazioni svolgono attività di lobbying per promuovere le relazioni fra i due Stati in conformità con la legislazione statunitense in materia. A partire dagli anni Settanta del Ventesimo secolo il rapporto di collaborazione strategica e militare tra i due paesi si è inoltre intensificato notevolmente, dapprima nel quadro del contenimento dell’influenza sovietica in Medio Oriente e successivamente nella cornice della “Guerra al terrore” portata avanti dagli Stati Uniti a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001.

Attualmente, il sostegno in favore di Israele da parte degli Stati Uniti è molto significativo sia dal punto di vista economico che sotto il profilo politico. Israele ha infatti accesso a un cospicuo supporto finanziario da parte degli Stati Uniti e in base ai dati disponibili (relativi al 2020), con 3.3 miliardi di dollari su base annua, risulta essere il secondo più importante beneficiario di assistenza economica a stelle e strisce (nel 2020, il primo beneficiario era l’Afghanistan). La quasi totalità di questi aiuti economici è destinata a finanziare il settore militare israeliano. Gli Stati Uniti offrono inoltre un importante supporto politico nei confronti di Israele nell’ambito delle istituzioni internazionali come le Nazioni unite. Lo scorso febbraio, ad esempio, la diplomazia USA ha fatto in modo di evitare che il Consiglio di sicurezza dell’Onu votasse una risoluzione di condanna nei confronti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, lavorando al tempo stesso per fare in modo che il governo israeliano decretasse una sospensione di questa attività che, come vedremo, è estremamente controversa.

Da sinistra a destra: il Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il presidente USA Bill Clinton e il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina Yasser Arafat a Washington D.C., in occasione di una cerimonia a seguito della conclusione degli accordi di Oslo del 1993. Questi accordi hanno segnato un passo fondamentale nel processo di pace israelo-palestinese in favore del principio dei “due Stati”. Fonte: Wikimedia Commons.

Al tempo stesso, il governo di Washington sostiene la soluzione dei “due Stati” riguardo la questione israelo-palestinese e si impegna dunque a fare in modo che anche il popolo palestinese possa avere uno Stato e godere in pieno del diritto all’autodeterminazione – una soluzione appoggiata non soltanto da Washington, ma anche dall’Unione europea e dal resto della comunità internazionale. Trovare un equilibrio tra queste due posizioni rappresenta da sempre una sfida estremamente delicata per gli statisti americani e i recenti sviluppi regionali – come l’insediamento di un governo di destra nazionalista e religiosa in Israele e un significativo incremento delle violenze tra israeliani e palestinesi – sta severamente complicando la gestione di questo difficile equilibrismo.

Il tormentato cammino verso una soluzione della questione israelo-palestinese ha recentemente subito una notevole battuta di arresto. Già lo scorso anno la violenza fra israeliani e palestinesi ha conosciuto un inasprimento che non si registrava da più di un decennio. Nel corso del 2022, almeno 146 palestinesi e 29 israeliani hanno perso la vita. Tra le vittime di questa escalation si puo’ citare anche la giornalista dalla doppia nazionalità – statunitense e palestinese – Shireen Abu Akleh. Nei primi tre mesi del 2023, hanno perso la vita almeno 80 palestinesi e 14 israeliani. Le vittime israeliane sono state causate da diversi atti di terrorismo, alcuni pepretrati da “lupi solitari” e altri da gruppi terroristi organizzati. Tra i principali attentati terroristici contro Israele avvenuti quest’anno si può citare una sparatoria che ha avuto luogo lo scorso gennaio di fronte a una sinagoga e un attentato commesso a Tel Aviv a inizio aprile che ha portato alla morte di un turista italiano. Le vittime palestinesi sono spesso il risultato di operazioni di controterrorismo israeliane nei territori palestinesi, come il raid effettuato lo scorso febbraio nella città di Nablus, in Cisgiordania, che ha portato all’uccisione di 11 persone. In alcuni casi, cittadini palestinesi sono stati anche vittime di rappresaglie private perpetrate da coloni israeliani. Sebbene gli episodi di violenza fossero già aumentati significativamente lo scorso anno, questa tragica tendenza ha continuato ad aggravarsi nei mesi successivi all’insediamento del nuovo governo guidato da Netanyahu. Tra le cause della spirale di tensione si può citare l’atteggiamento del nuovo governo in relazione al progetto di dare ai palestinesi un loro Stato, realizzando la soluzione a “due Stati” sostenuta dalla comunità internazionale. Netanyahu si è detto favorevole ai negoziati con le autorità palestinesi, ma ha ambiguamente osservato che il progetto di creare uno Stato palestinese non può avvenire a discapito delle necessità di sicurezza israeliane. Allo stesso tempo il Primo ministro israeliano ha affermato di voler dare la priorità alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi piuttosto che ai progressi del processo di pace con i palestinesi. Queste affermazioni sono state pronunciate a ridosso di un viaggio del segretario di Stato USA Antony Blinken. Blinken ha ribadito il sostegno di Washington alla soluzione dei due Stati e ha incontrato anche il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas. In tale occasione il segretario di Stato americano ha anche criticato la politica di espansione degli insediamenti israeliani nei territori destinati a far sorgere lo Stato palestinese. Gli appelli alla fine delle violenze e alla ripresa dei negoziati da parte di Blinken hanno tuttavia avuto un effetto limitato. Lo scorso febbraio, dopo aver autorizzato un’espansione e a seguito dell’inasprimento delle violenze e della già citata mediazione americana, il governo israeliano ha decretato una sospensione temporanea della costruzione di nuovi insediamenti. Al fine di contenere la tensione, è stato inoltre proibito ai non musulmani l’accesso alla Spianata delle Moschee – anche nota come Monte del Tempio – durante il periodo del Ramadan. Come dimostrato da eventi recenti, questa rinnovata escalation rischia inoltre di espandersi a livello regionale. Israele ha infatti subito attacchi missilistici da parte di milizie operanti nella Striscia di Gaza e nel sud del Libano, spingendo il governo israeliano a organizzare delle operazioni aeree contro tali gruppi. Le forze aeree israeliane hanno inoltre condotto delle operazioni in aree controllate da milizie filo-iraniane in Siria, portando a una crescita della tensione che potrebbe generare un conflitto di più ampia portata.

Il segretario di Stato americano Antony Blinken (a sinistra) e Benjamin Netanyahu (a destra) nel maggio 2021. Fonte: Wikimedia Commons.

Netanyahu ha inoltre affidato un numero di posizioni chiave nel governo a esponenti di forze politiche di destra religiosa e identitaria particolarmente contrari alla soluzione a due Stati e favorevoli alla costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati. Questi insediamenti sono contrari alle norme del diritto internazionale e generano ovviamente terribili sofferenze e risentimento tra i palestinesi che vivono nelle aree che dovrebbero un giorno costituire il territorio dello Stato palestinese. Lo scorso marzo il governo israeliano ha approvato la possibilità di ripopolare alcuni insediamenti la cui evacuazione era stata ordinata nel 2005, una decisione che ha incontrato la disapprovazione da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Lo scorso 10 aprile, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, un controverso politico noto per le sue posizioni di estrema destra, si è unito a una marcia di protesta organizzata dai sostenitori della colonizzazione dei territori palestinesi nel nord della Cisgiordania. 

Le relazioni tra l’amministrazione Biden e il governo Netanyahu – e più in generale tra Stati Uniti e Israele – sono inoltre rese estremamente più tese a causa di un controverso progetto di riforma della giustizia portato avanti dalla coalizione di destra al potere in Israele. La riforma costituisce uno dei cardini del programma della coalizione di destra guidata da Netanyahu, ma ha generato forte opposizione sia nell’opinione pubblica che all’interno delle istituzioni, in quanto potrebbe aprire le porte a una politicizzazione del potere giudiziario e compromettere l’autorità della Corte suprema israeliana, un organo centrale nel garantire il rispetto dei principi costituzionali di Israele (che non ha una vera e propria carta costituzionale). Il fatto che lo stesso Netanyahu sia al momento sotto inchiesta per diversi scandali di corruzione rende questo progetto ulteriormente controverso.

A partire dallo scorso gennaio, i cittadini israeliani sono costantemente scesi in piazza per manifestare il loro dissenso, a Tel Aviv e in molte altre città del paese. Il malcontento per la riforma si è diffuso anche nell’apparato burocratico e perfino nelle forze armate, tanto da aver spinto il ministro della Difesa Yoav Gallant a chiedere pubblicamente una marcia indietro – un evento che ha tuttavia indotto Netanyahu a chiedere le dimissioni di Gallant, creando una mini crisi di governo scongiurata alcuni giorni dopo con la revoca di tale richiesta. Lo scorso 27 marzo, Netanyahu ha annunciato la sospensione per almeno un mese dell’iter legislativo che avrebbe dovuto portare all’approvazione della riforma. Tuttavia, per evitare una crisi all’interno della coalizione, il primo ministro ha promesso la creazione di una “guardia nazionale” che dovrebbe essere gestita da Ben Gvir. 

Una manifestazione di protesta a Tel Aviv. Fonte: ABC News.

Nel corso di un’intervista, Thomas Nides, ambasciatore americano in Israele, ha recentemente invitato il governo Netanyahu a “schiacciare il freno” sulla riforma della giustizia. Lo stesso Biden ha dichiarato che il governo israeliano “non può continuare su questa strada”. La risposta a queste affermazioni, sia da parte di Netanyahu che da parte di altri esponenti del governo è stata piuttosto dura. Netanyahu ha infatti dichiarato che “Israele è un paese sovrano” e che non accetta “pressioni dall’estero, neanche dai nostri migliori amici”. Queste parole, mitigate da espressioni di riconoscenza e amicizia nei confronti di Washington, suggeriscono una certa sicurezza da parte di Netanyahu, un sentimento che, come osservato, si basa anche sul fatto che la collaborazione fra Stati Uniti e Israele è un elemento consolidato nella politica estera e interna di Washington. Al tempo stesso, il fatto che il presidente Biden, che in passato aveva manifestato l’intenzione di “blindare” i rapporti con Israele, e i suoi collaboratori esprimano sempre più chiaramente il loro disappunto nei confronti delle scelte dell’attuale governo israeliano non è un segnale da sottovalutare. 

Le bandiere di Stati Uniti e Israele. Fonte: Wikimedia Commons.

Il sostegno in favore della causa palestinese da parte dell’opinione pubblica statunitense è notevolmente aumentato negli ultimi anni, soprattutto tra gli elettori democratici e “indipendenti” (mentre i repubblicani rimangono maggioritariamente inclini a sostenere le posizioni del governo israeliano). Questa dinamica è inoltre più evidente tra i giovani. Il malcontento nei confronti del nuovo governo israeliano è condiviso da influenti opinionisti americani. Anche nell’ambito della comunità ebraica statunitense, l’atteggiamento critico nei confronti della nuova coalizione di destra – che vede al suo interno politici che si sono distinti per posizioni omofobe e di incitamento all’odio razziale – è sempre più diffuso. Lo scorso 13 aprile, un gruppo di parlamentari democratici ha pubblicamente invitato Biden e Blinken ad adoperarsi per assicurare che il sostegno economico americano nei confronti di Israele non venga utilizzato per iniziative tali da generare abusi o violazioni dei diritti umani nei confronti dei palestinesi.

Sebbene dunque il sostegno di Washington nei confronti di Israele rimanga saldo e ancorato da valori e interessi strategici stabili condivisi, va amaramente constatato che le politiche adottate da quella che è stata definita “la coalizione più di destra” nella storia israeliana stanno alimentando una nuova stagione di violenza con i palestinesi e una profonda crisi sociale e identitaria sul piano interno, e al tempo stesso stanno intaccando la natura solida e radicata del sostegno americano nei confronti di Israele.

Diego Pagliarulo