Gli Stati Uniti, l’Europa e la guerra tra Israele e Hamas

La tragica spirale di violenza iniziata il 7 ottobre con l’attacco terroristico perpetrato da Hamas nel sud di Israele pone una sfida cruciale ai valori e agli interessi degli Stati Uniti e dei loro principali alleati europei, nonché dell’Unione europea nel suo insieme. Su entrambe le sponde dell’Atlantico la risposta politica alla crisi si è manifestata in un’unanime condanna per l’efferato attentato terroristico compiuto da Hamas e in un’altrettanto condivisa dichiarazione di sostegno politico al governo israeliano. Allo stesso tempo, numerosi fattori hanno determinato alcune importanti differenze in termini di effettivo contributo e di influenza nel determinare l’evoluzione della crisi. Tra questi si possono citare il diverso grado di esposizione ai rischi derivanti dall’instabilità del Medio Oriente, la capacità di agire come attore coerente dal punto di vista strategico, nonché le differenti capacità politiche e militari di intervento nella regione. La crisi ha confermato gli USA come la potenza leader del campo occidentale mentre i paesi europei e le istituzioni di Bruxelles si stanno distinguendo come dei partner importanti dal punto di vista politico ma non in grado di articolare un’efficace risposta autonoma alla crisi.

Il presidente USA Joe Biden con il presidente israeliano Isaac Herzog e il primo ministro Benjamin Netanyahu. Fonte: Wikimedia Commons.

Gli Stati Uniti giocano un ruolo fondamentale negli equilibri geopolitici del Medio Oriente e, nonostante la discutibile ma diffusa percezione di un disimpegno o di una perdita di rilevanza di Washington nella regione, gli eventi drammatici delle ultime settimane stanno confermando la natura indispensabile della potenza americana. Vista da Washington, la guerra tra Hamas e Israele crea difficili sfide sia militari che geopolitiche, ma al tempo stesso rappresenta anche una questione di grande rilevanza dal punto di vista della politica interna.  

La reazione immediata dell’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden – analogamente a quella di praticamente tutte le capitali occidentali – è stata una ferma condanna per l’attentato e un’espressione di netto sostegno a Israele. Il presidente americano, in una dichiarazione congiunta con il presidente francese Emmanuel Macron, il primo ministro britannico Rishi Sunak, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, ha infatti condannato l’aggressione di Hamas e ha confermato il pieno sostegno a Israele, riconoscendo al tempo stesso le aspirazioni legittime del popolo palestinese. 

La portaerei USS Gerald R. Ford in formazione con delle navi di supporto. Fonte: Flickr.

Nei giorni immediatamente successivi all’attacco da parte di Hamas, l’amministrazione Biden si è impegnata a fornire ulteriori aiuti militari a Israele – che già risulta essere uno dei principali beneficiari dell’assistenza economica e militare a stelle e strisce. Lo scorso 20 ottobre, la Casa Bianca ha anche chiesto al Congresso di approvare un ulteriore incremento delle spese militari per finanziare un programma di assistenza del valore di 105 miliardi di dollari in favore di Israele, dell’Ucraina, di Taiwan, e della sicurezza del confine meridionale degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, il governo di Washington ha riposizionato nel Mediterraneo orientale una massiccia flotta navale che include anche la portaerei USS Gerald Ford – la più grande al mondo – alla quale si è aggiunto un secondo contingente guidato dalla portaerei USS Eisenhower, che dopo una sosta nel teatro mediterraneo è stato destinato a rafforzare la presenza militare americana nel Golfo Persico. Sebbene gli Stati Uniti siano determinati a svolgere un ruolo militare di deterrente al fine di scongiurare un’ulteriore espansione a livello regionale del conflitto, la prospettiva di un’invasione e dell’occupazione militare israeliana – parziale o totale – della Striscia di Gaza viene vista come uno scenario contrario ai valori e agli interessi americani e dei partner occidentali di Washington. Questa eventualità implicherebbe chiaramente un lungo conflitto con delle pesanti catastrofi umanitarie derivanti dall’uccisione di un altissimo numero di civili e dalla distruzione della già insufficiente rete di infrastrutture della regione – che misura poco più di 360 chilometri quadrati e ospita più di due milioni di persone. L’intervento militare israeliano, soprattutto se prolungato, rischia inoltre di creare ulteriori drammi come l’uccisione degli ostaggi catturati dai terroristi di Hamas, la destabilizzazione di alcuni paesi arabi – soprattutto quelli che hanno normalizzato le loro relazioni con Israele – e  attentati terroristici di matrice jihadista, come quelli avvenuti in Belgio e in Francia.  L’amministrazione Biden si è dunque mobilitata nel complesso sforzo di sostenere Israele scongiurando al tempo stesso il materializzarsi degli scenari più catastrofici.

Il segretario di Stato americano Antony Blinken durante un viaggio in Israele nel gennaio 2023. Fonte: Wikimedia Commons.

Il segretario di Stato Antony Blinken ha immediatamente intrapreso un difficile viaggio in Israele e altri paesi del Medio Oriente. L’atmosfera trovata da Blinken nelle capitali arabe è stata caratterizzata da una certa avversione nei confronti di Hamas, ma al tempo stesso da una forte riluttanza nel prendere posizione, in buona parte determinata dalla preoccupazione a riguardo delle conseguenze del conflitto sul piano della politica interna. Al viaggio di Blinken è seguita la decisione di Joe Biden di compiere a sua volta una visita personale in Israele e nel Medio Oriente. Tuttavia, la notizia relativa alla distruzione di un ospedale di Gaza a seguito di un bombardamento (attribuito da Hamas a Israele e da Israele al gruppo terroristico della Jihad Islamica), ha fatto saltare un vertice aggiuntivo che si sarebbe dovuto tenere ad Amman, in Giordania, tra Biden e il re Abdullah II, il presidente Egiziano Abdel Fattah al-Sisi, e il leader dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas. Il viaggio di sette ore di Biden in Israele e l’incontro con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – con cui il presidente americano ha avuto nel corso degli anni una relazione personale difficile – ha ottenuto il risultato di mettere un freno all’invasione di Gaza e rendere possibile l’apertura di un corridoio umanitario in favore della popolazione della Striscia. Al tempo stesso, il mancato incontro di Biden con i leader arabi, l’affermazione di netto sostegno a Israele, e il veto posto dagli Stati Uniti a una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu che invocava una pausa nel conflitto al fine di favorire la fornitura di aiuti umanitari, sembrano aver fortemente limitato l’impatto di questa visita. 

Il presidente USA Joe Biden (a sinistra) e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (a destra). Fonte: Wikimedia Commons.

Al viaggio di Biden sono seguite iniziative analoghe da parte di leader europei, come il viaggio del primo ministro britannico Sunak in Israele e Arabia Saudita e l’incontro tra la presidente del Consiglio italiana Meloni e Netanyahu a Tel Aviv. Anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha effettuato di sua iniziativa personale un viaggio in Israele e ha effettuato dichiarazioni pubbliche di forte sostegno al governo israeliano – scelte che tuttavia hanno destato forti perplessità sia tra i leader europei sia all’interno delle istituzioni di Bruxelles. Al momento in cui queste righe vengono scritte, l’ultimo leader europeo a visitare Israele è stato il presidente francese Macron, che ha incontrato sia Netanyahu che Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Durante il suo viaggio Macron ha ribadito il sostegno francese per le aspirazioni del popolo palestinese e ha invocato una coalizione internazionale per combattere Hamas sul modello di quella creata contro lo “Stato islamico” (anche noto come Isis o Daesh). La proposta di Macron merita attenzione in quanto un intervento nell’ambito di una coalizione multilaterale sarebbe legittimato agli occhi della comunità internazionale – soprattutto se la coalizione invocata da Macron comprendesse anche paesi arabi e musulmani, come avvenuto in effetti nel caso dell’intervento contro Daesh. Tuttavia non è purtroppo chiaro se al momento la comunità internazionale sia pronta ad affrontare un simile compito, così come non è stato specificato che tipo di intervento militare questa coalizione potrebbe attuare. Anche il vertice tenutosi la scorsa settimana al Cairo, in Egitto, ha dimostrato significative divergenze tra gli USA e i governi europei da una parte, e i leader arabi dall’altra, con gli occidentali disposti a fare appello in favore di aiuti umanitari ma determinati ad affermare il diritto all’autodifesa di Israele, a fronte di una volontà araba di richiedere un immediato cessate-il-fuoco.

Il presidente francese Emmanuel Macron (a sinistra) e il presidente israeliano Isaac Herzog (a destra). Fonte: Wikimedia Commons.

Da un punto di vista geopolitico di più ampio respiro, la guerra tra Hamas e Israele rappresenta un duro colpo al progetto statunitense di favorire l’emergere di un Medio Oriente più “integrato” e “interconnesso”, stabile e autosufficiente dal punto di vista della sicurezza. La chiave di volta di questo progetto, fino allo scorso 7 ottobre, era la prospettiva di una normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, in cui l’amministrazione Biden ha investito ingenti risorse politiche. Israele e Arabia Saudita sembravano destinati anche a rappresentare due punti di passaggio di importanza cruciale in un progetto annunciato lo scorso settembre da Biden nel corso del G20 di Nuova Delhi – un’iniziativa volta a creare un corridoio di infrastrutture tali da collegare l’India al Mediterraneo, con importanti ricadute sia sul piano economico che su quello geopolitico, in funzione di contrasto alla famosa Belt and Road Initiative lanciata alcuni anni fa dalla Cina. I tragici eventi che stanno segnando il Medio Oriente in questi giorni hanno oscurato queste importanti iniziative strategiche di lungo periodo, riportando al centro del dibattito la questione israelo-palestinese, che per contro – e chiaramente, almeno in restrospettiva, erroneamente – era apparsa sempre meno rilevante agli occhi di numerosi analisti e statisti a partire dagli “Accordi di Abramo”, che nel 2020 avevano consentito a Israele di iniziare a normalizzare le relazioni con numerosi paesi arabi. 

Il senatore repubblicano del South Carolina Lindsey Graham. Fonte: Wikimedia Commons.

Come già accennato, la guerra scatenata dall’aggressione di Hamas contro Israele ha importanti conseguenze anche per la politica interna statunitense. Molti esponenti del Partito repubblicano hanno adottato una posizione bellicista, invocando una risposta dura da parte di Israele e un coinvolgimento militare statunitense, soprattutto in funzione anti-iraniana. Il senatore repubblicano Lindsey Graham, in particolare, ha affermato che in caso di un intervento nel conflitto da parte dei miliziani libanesi di Hezbollah, gli Stati Uniti dovrebbero intervenire direttamente contro l’Iran, attaccando in particolare la capacità del regime di Teheran di esportare petrolio. Gli esponenti repubblicani che partecipano alle primarie per scegliere il candidato del partito per le presidenziali del 2024 hanno in generale espresso un sostegno molto forte per Israele. Alcuni – e in particolare Mike Pence (che è stato vice-presidente durante il mandato di Donald Trump) e il governatore del New Jersey Chris Christie, hanno espresso un parere piuttosto controverso secondo cui la responsabilità per l’attacco terroristico perpetrato da Hamas sia da attribuire a una politica di “appeasement” dell’amministrazione Biden nei confronti dell’Iran e dei nemici di Israele. Donald Trump, il controverso ex-presidente che è al momento di gran lunga il favorito nella corsa alla nomination repubblicana, si è distinto per aver criticato Netanyahu per il fallimento di intelligence che ha permesso ad Hamas di perpetrare l’attacco del 7 ottobre – un’affermazione che ha destato forti critiche da parte degli altri candidati alle primarie – e per aver affermato la sua contrarietà all’ipotesi che gli Stati Uniti accolgano rifugiati palestinesi. Anche il governatore della Florida Ron DeSantis ha puntato la sua attenzione verso questo aspetto – che ha tuttavia a che vedere più con una questione ideologica legata a una volontà di affermare una certa visione fortemente esclusiva dell’identità nazionale americana che con la catastrofe umanitaria e le sfide strategiche che caratterizzano il dramma che si sta sviluppando in Medio Oriente. È interessante infine segnalare che un altro candidato di spicco, Vivek Ramaswamy, pur condannando l’attentato, ha espresso una forte contrarietà all’idea di un coinvolgimento americano.

Il conflitto ha tuttavia inasprito anche le divisioni interne al Partito democratico, tra una maggioranza “centrista” ancorata alla tradizionale posizione di appoggio a Israele e un’influente minoranza più sensibile alle istanze palestinesi. Alcuni rappresentanti democratici dell’ala “progressista,” pur esprimendo la loro solidarietà nei confronti del popolo israeliano, hanno fatto appello a Biden affinché il presidente si adoperi per ottenere un immediato cessate-il-fuoco. A questo appello è seguita l’introduzione, alla Camera dei rappresentanti, di una risoluzione che invoca l’impegno del governo di Washington a ottenere il cessate-il-fuoco e porre fine alla violenza. Questa risoluzione è stata promossa da 13 esponenti democratici, tra cui anche Rashida Tlaib, una deputata di origini palestinesi eletta in Michigan. Analogamente a quanto è accaduto nel campo repubblicano, queste iniziative hanno reso più evidenti le divisioni interne tra i democratici americani, confermando una tendenza sempre più evidente nel sistema politico degli Stati Uniti, che risulta sempre più polarizzato sia dal punto di vista delle relazioni tra partiti che nei rapporti interni ai partiti stessi – un fenomeno che rende particolarmente difficile tanto la formulazione di politiche di ampio respiro quanto il compito dei candidati che si sfideranno nelle presidenziali del 2024.

La rappresentante democratica del Michigan Rashida Tlaib. Fonte: Wikimedia Commons.

In conclusione, sia Biden che i principali leader europei hanno espresso pubblicamente un sostegno netto e deciso in favore di Israele, difendendo il paese nel quadro delle principali istituzioni internazionali e delle iniziative diplomatiche sorte per favorire la gestione della crisi e, nel caso degli Stati Uniti, destinando importanti risorse militari ed economiche alla difesa di Israele e al contenimento del conflitto. Questo sostegno, tuttavia, mira anche a porre un freno alla risposta militare israeliana agli attentati del 7 ottobre, in modo da ritardare e possibilmente evitare scenari come un’invasione e una prolungata occupazione di Gaza, un’ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente, e una nuova “alta marea” di jihadismo in Europa.

La crisi conferma che il governo di Washington rimane il punto di riferimento principale dell’Occidente nel difficile compito di rispondere alle drammatiche sfide di sicurezza che tormentano il Medio Oriente. Gli Stati Uniti – per ragioni strategiche, ideologiche e di politica interna – hanno da tempo assunto un approccio che mette in primo piano la tutela della sicurezza di Israele. Come osservato in questi giorni, tra l’altro, questo approccio viene seguito anche dagli altri governi occidentali. Al tempo stesso, tuttavia, tutte le iniziative che nella drammatica storia del conflitto arabo-israeliano e della questione israelo-palestinese hanno portato a concreti progressi, o dato speranza al processo di pace, sono state il risultato di un coinvolgimento diretto da parte del governo di Washington – come nel caso degli accordi di Camp David del 1978 o degli Accordi di Abramo del 2020 – o di sforzi esplicitamente sostenuti dagli Stati Uniti – come nel caso del processo di pace basato sul principio dei “due Stati” (Israele e uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) inaugurato con gli accordi di Oslo del 1993, che ancora oggi rispecchia il consenso della comunità internazionale.

Il presidente statunitense Bill Clinton (al centro) con il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin (a sinistra) e il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina Yasser Arafat (a destra) durante un incontro alla Casa Bianca nel settembre 1993. Fonte: Wikimedia Commons.

La politica dell’amministrazione Biden si è articolata fin dall’insediamento lungo le direttrici tradizionali di sostegno alla sicurezza di Israele e appoggio al principio dei due Stati. Durante la campagna elettorale del 2020 Biden aveva già affermato che nella sua presidenza il sostegno americano a Israele sarebbe stato “blindato”, ma in varie occasioni nella sua carriera politica – come nel 2016, quando era vice-presidente nell’amministrazione di Barack Obama – l’attuale presidente statunitense ha espresso la necessità di ottenere maggiori progressi nel processo di pace e di favorire la creazione di uno Stato palestinese. Questa posizione, già di per sé molto difficile da portare avanti in modo coerente, è attualmente resa ancora più complicata dalla situazione di estrema emergenza e dall’interazione di fattori che, come esaminato in questo articolo, creano dinamiche complesse e in gran parte divergenti: la necessità di sostenere un alleato e quella di evitare un disastro umanitario, la volontà di preservare la stabilità regionale e quella di sviluppare progetti geopolitici di ampio respiro, il compito di gestire gli equilibri di politica interna e quello di preparare la campagna presidenziale del 2024.

Diego Pagliarulo