Lo stallo politico, le milizie fuori controllo, le interferenze esterne e la missione onusiana in perenne difficoltà rendono il destino della Libia incerto e sospeso tra passato e futuro. A distanza di oltre quattordici anni dalla caduta di Moammar Gheddafi, l’ex colonia italiana continua a essere un mosaico fragile, dilaniato da conflitti interni, ingerenze di attori terzi e una transizione politica che non ha mai davvero preso forma. L’illusione di una rapida democratizzazione si è da tempo infranta, lasciando spazio a una realtà complessa, dove lo Stato è inesistente, la sicurezza appaltata a milizie armate e la popolazione civile stretta nella morsa di una crisi senza fine.

Il mese di maggio 2025 ha segnato un nuovo, drammatico punto di svolta. Tripoli, la capitale nominalmente sotto il controllo del Governo di unità nazionale (Gun), è ritornata ad essere teatro di scontri violentissimi tra due delle principali milizie attive sul territorio urbano: la Brigata 444 e l’Apparato di Supporto alla Stabilizzazione (SSA). Il casus belli è stato l’omicidio di Abdel Ghani al-Kikli, soprannominato Ghnewa, leader dell’SSA e uno dei più influenti capi miliziani della città, a lungo vicino agli ambienti governativi. La sua uccisione – dovuta alla crescente ingerenza e a decisioni non condivise – ha innescato una reazione a catena che è rapidamente degenerata in combattimenti nelle strade, con armi pesanti e incursioni in quartieri residenziali. Nel giro di poche ore, le forze di Ghnewa si sono disgregate, molti suoi uomini sono fuggiti dalla capitale e le forze filo-Dbeibah hanno conquistato il territorio urbano precedentemente sotto il controllo di al-Kikli. Lo stesso premier ha rivendicato l’operazione come un grande risultato contro lo strapotere delle milizie nella capitale, definendolo un passo decisivo verso la fine dei gruppi irregolari. Tuttavia, la situazione ha preso una piega inaspettata quando una seconda operazione governativa, il giorno seguente, ha avuto come obiettivo alcune postazioni della potente milizia Rada (Al Radaa for Countering Terrorism & Organized Crime), guidata da Abdul Raouf Kara, storicamente alleata del governo ma spesso operante come polizia religiosa o forza parallela, con una propria agenda ideologica salafita. Gli scontri tra “forze governative” e miliziani Rada si sono protratti per ore creando terrore e panico tra i civili. I bilanci ufficiali parlano di decine di morti civili e feriti, ma il dato più preoccupante è l’assoluta impunità con cui le milizie hanno operato (e operano). In molti quartieri, la figura statale non esiste: l’ordine pubblico è mantenuto – o imposto – da gruppi armati che rispondono più a interessi clanici o personali che a una visione di sicurezza collettiva. Solo l’intervento di altri gruppi neutrali ha permesso il raggiungimento di una tregua. Il cessate il fuoco raggiunto tra forze filo-Gun e Rada ha riportato una calma apparente, ma la tensione resta altissima. Prima di questa escalation, i rapporti tra i principali gruppi armati di Tripoli non erano privi di contrasti, ma la maggior parte di loro lavorava nella stessa direzione affinché l’attuale governo rimanesse in carica così da continuare ad accumulare potere e ricchezza. Questa situazione permetteva, da una parte, al Gun di Dbeibah di rivendicare il ruolo determinante nel mantenimento della pace a Tripoli – dopo i continui scontri a fuoco degli anni passati – e, dall’altra, alle milizie di costruirsi una reputazione e un proprio spazio nella sfera della sicurezza tripolina.
La crisi a Tripoli ha riportato l’attenzione sulla presenza e il ruolo delle milizie. Infatti, uno degli aspetti più gravi della crisi libica è stata la proliferazione incontrollata di tali gruppi. Nato inizialmente come fenomeno di autodifesa durante la rivoluzione del 2011, il potere di questi attori locali si è negli anni strutturato e consolidato. Oggi le milizie gestiscono interi settori dell’economia informale, controllano i flussi migratori, amministrano la giustizia in parallelo allo Stato e spesso si scontrano tra loro per il controllo del territorio. Il Gun ha tentato, con scelte discutibili, di “integrare” le milizie all’interno delle forze armate regolari, ma nei fatti questa operazione si è rivelata una copertura per cooptare i capi miliziani in cambio di fedeltà politica. Il risultato è un sistema ibrido, dove i confini tra istituzioni e criminalità organizzata sono sempre più sfumati.

Se gli scontri armati rappresentano la dimensione più visibile della crisi, nelle stesse ore si è aperta un’altra frattura altrettanto significativa. Migliaia di libici sono scesi in piazza a Tripoli per chiedere le dimissioni del primo ministro del Gun, Abdulhamid Dbeibah, considerato responsabile dei conflitti che hanno insanguinato Tripoli, di bloccare il processo elettorale e di lasciare proliferare l’illegalità armata nel cuore delle istituzioni. Alle proteste si è unita la voce di alcuni ministri del suo governo in aperto contrasto con le scelte del misuratino, che hanno rassegnato le dimissioni, denunciando un esecutivo sempre più autoreferenziale e incapace di rispondere alle richieste della popolazione. La rabbia popolare si alimenta da anni di promesse disattese, mentre le elezioni, previste inizialmente per il dicembre 2021, sono state rinviate a tempo indefinito, bloccate da divergenze istituzionali, contestazioni giuridiche e interferenze straniere. Dbeibah, che avrebbe dovuto traghettare il paese verso un voto democratico, è oggi accusato – in particolar modo dalla fazione orientale – di voler mantenere il potere a tempo indeterminato, alimentando lo stallo e accentuando le divisioni interne. Tuttavia, l’opportunità per sfidare il potere del premier di Tripoli, con un’iniziativa politica e la credibilità popolare, sembra non avere la forza necessaria, per il momento. Le proteste, sebbene ancora vive, hanno perso lo slancio iniziale e le debolezze croniche delle diverse milizie – forte ambizione e sfiducia reciproca – sono riemerse e non hanno permesso la nascita di un’alternativa realistica all’attuale esecutivo. Anche da oriente continuano ad arrivare richieste da parte della Camera dei Rappresentanti (HoR) affinché il governo di Tripoli ceda il passo a un nuovo esecutivo transitorio in grado di accompagnare il paese alle urne. Tuttavia, tale richiesta, condizionata da interessi e decisioni non trasparenti, non si sposa evidentemente con le scelte e le intenzioni di Dbeibah.
Al centro della crisi libica vi è la persistente divisione del paese in due blocchi rivali: a occidente, il già citato Gun, ancora riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto da attori come Turchia e Qatar; a oriente, il Governo di stabilità nazionale (Gsn), sostenuto dal generale Khalifa Haftar e dal Parlamento di Tobruch, con il sostegno politico e militare di Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Questa spaccatura, ormai istituzionalizzata, non è solo geografica, ma anche militare ed economica. Mentre a Tripoli dominano milizie urbane e poteri informali, nell’est del paese regna un ordine più rigido ma profondamente militarizzato, dominato dalla figura del generale Haftar e dal suo autoproclamato Esercito nazionale libico (Eln). La Cirenaica – e in misura crescente anche il Fezzan – è controllata in modo centralizzato dal feldmaresciallo, che si presenta come garante della stabilità, ma a prezzo di un autoritarismo diffuso e della soppressione del dissenso. Nel frattempo, nei giorni scorsi, nella neonata “città militare” – voluta da Haftar e costruita nella località di Qaminis a sudovest di Bengasi – si è svolta una parata militare imponente per celebrare l’anniversario dell’Operazione Karama (Dignità) lanciata nel 2014 per “liberare il paese dalle forze islamiste”. Alla presenza di ospiti stranieri e alte cariche istituzionali della fazione orientale – oltre allo stesso Haftar, erano presenti il presidente della HoR, Aguila Saleh, e il premier del Gsn, Osama Hammad – il feldmaresciallo ha sfoggiato tutto il suo apparato e arsenale militare. Alcuni mezzi ed equipaggiamento erano di evidente fabbricazione straniera: le immagini che sono circolate in rete hanno rivelato una serie di moderni veicoli blindati, tra cui i modelli Spartak e Tigr, e un veicolo anfibio cingolato di fabbricazione russa, lo ZSGT-34039B. Erano inoltre esposti carri armati T-72 e T-62 di epoca sovietica aggiornati, veicoli BMP-2 dotati di gabbie anti-drone, insieme ai sistemi di difesa aerea Pantsir-S1 e Pantsir-S1E e al sistema missilistico terra-aria Tor-M2E. Al contempo, come riporta Agenzia Nova, si segnala la presenza di droni Uav cinesi e fucili d’assalto tipo QBZ-97, derivati dal QBZ-95, impiegati già in vari teatri africani e asiatici, anche questi di origine cinese.

L’uomo forte della Cirenaica potrebbe approfittare delle tensioni in Tripolitania e provare a raggiungere il suo obiettivo: controllare l’intero territorio libico. Tuttavia, il timore che uno scenario di questo tipo si possa realizzare, potrebbe far decidere agli attori presenti a Tripoli di continuare a gestire i propri conflitti interni e fare muro congiuntamente contro l’eventualità di un attacco armato proveniente da est. Da anni, infatti, Haftar prova a crearsi uno spazio nello scacchiere della capitale, ma le sue ambizioni – che, una volta realizzate, si tradurrebbero nella fine del potere dei gruppi – sono state il principale ostacolo a un suo avanzamento.
La comunità internazionale sembra oggi divisa tra chi prova a mantenere un minimo coinvolgimento diplomatico e chi ha ormai accettato la Libia come un “conflitto congelato”. L’Onu ha recentemente nominato la diplomatica ghanese Hanna Serwaa Tetteh come nuova Rappresentante speciale per la Libia, nella speranza di rilanciare un processo di mediazione, ma le sue possibilità di successo dipendono da fattori spesso fuori dal controllo dell’organizzazione internazionale: la volontà dei leader libici di cedere potere, la fine delle interferenze esterne, e – soprattutto – un nuovo patto sociale tra le varie anime del paese. La Missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) si trova oggi in una posizione delicata: dopo anni di tentativi di mediazione, road map elettorali fallite, conferenze internazionali inconcludenti e creazione di comitati ad hoc (l’ultimo nato poche settimane fa) appare priva degli strumenti reali per incidere. L’impotenza della diplomazia multilaterale riflette una realtà più ampia: la Libia è ostaggio di élite politiche e militari che hanno tutto da perdere in un processo democratico trasparente. In un clima di sfiducia reciproca, allo stato attuale delle cose, anche gli attori esterni preferiscono sostenere i propri protetti locali, piuttosto che spingere per una soluzione condivisa. In tal senso, il ruolo di alcuni player resta fondamentale: Turchia e Russia, infatti, sembrano avere in mano, per il momento, il destino della Libia. Il ritorno a un probabile conflitto militare dipenderà dalla volontà e dalle scelte prese nei palazzi di Ankara e Mosca.
Per concludere, la Libia è oggi un paese senza pace, senza giustizia e senza uno Stato funzionante. Le sue élite politiche e militari sembrano più preoccupate di conservare i propri privilegi che di costruire un futuro per la nazione. Le divisioni tra Tripolitania e Cirenaica, tra città e zone rurali, tra tribù e partiti, sono state amplificate da anni di guerra e propaganda. Eppure, sotto la superficie della crisi, esiste una società civile ancora viva, fatta di giovani, attivisti, imprenditori e giornalisti che non si arrendono. La speranza di una Libia diversa non è morta, ma per rinascere ha bisogno di condizioni che oggi appaiono ancora lontane: una nuova leadership politica, una smilitarizzazione reale e una diplomazia più coraggiosa. Senza questi ingredienti, la Libia rischia di restare prigioniera ancora per tanto tempo della sua stessa rivoluzione.
Mario Savina