Le proteste in Tunisia e il rischio di una transizione fallita

Proteste e disordini hanno caratterizzato le ultime settimane in Tunisia, priprio in concomitanza con il decimo anniversario dell’inizio della cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” che nel 2011 aveva la stagione delle “Primavere arabe” e portato alla caduta del regime guidato da Zine Abidine Ben Ali. Sono centinaia le persone arrestate dalla polizia durante gli scontri degli ultimi giorni. Le manifestazioni sono state scatenate dalla difficile situazione socio-economica. Il lockdown imposto per contrastare la diffusione della pandemia di Covid-19 non ha scoraggiato migliaia di giovani dal riversarsi nelle strade. I disordini, in particolar modo durante le ore notturne, si verificano in un contesto di grave peggioramento della situazione politica, economica e sociale del paese. A fare da sfondo sono le accese tensioni tra le varie forze politiche che siedono in parlamento, molto frammentato dalle elezioni del 2019, mentre il governo di Hicham Mechichi, sempre più indebolito, ha annunciato in una conferenza stampa sabato 16 gennaio a Kasbah un rimpasto che ha coinvolto undici portafogli ministeriali e soppresso un ministero e una segreteria di Stato. Il premier ha bisogno di un voto favorevole nell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, l’organo legislativo del paese. Nell’attuale situazione di forte instabilità nulla è certo, anche se tutto sembra portare a un governo “Mechichi-bis”. Lo scenario alternativo, che porterebbe i tunisini alle urne, potrebbe vedere una salita al potere dei nostalgici dell’ex presidente Ben Ali. Mechichi ha evidenziato le sfide che il governo dovrà affrontare nella prossima fase, come il lancio di riforme economiche e la promozione della giustizia sociale e dello sviluppo della solidarietà tra le regioni.

Una bandiera tunisina sventola in piazza. Fonte: Pinterest.

Dal 2011 ad oggi la Tunisia ha vissuto un periodo democratico, il più lungo e il più stabile – e per alcuni aspetti l’unico – della sua storia contemporanea. L’esempio tunisino e la resilienza della democrazia hanno annullato in parte tutte quelle teorie che etichettano il mondo arabo come “incapace” di darsi un governo democratico, dando allo stesso tempo un filo di speranza agli altri paesi arabi che ancora oggi vivono sotto forme di governo non democratiche. Per molto tempo la Tunisia ha dimostrato che l’alternativa ai regimi dittatoriali non è il caos totale, come invece è avvenuto nella vicina Libia. Tuttavia, negli ultimi mesi tale esperienza sembra essere a rischio e le ultime proteste hanno portato alla luce il malcontento del popolo tunisino.

Nel lontano 2011 i tunisini scesi in piazza protestavano per la disoccupazione dilagante e invocavano uguaglianza e giustizia sociale. I manifestanti che chiedevano riforme socio-economiche furono affiancati anche da piccoli gruppi pro-democratici e attivisti per i diritti umani che da anni portavano avanti una battaglia per lo smantellamento dello stato di polizia radicato nel paese magrebino da fin troppo tempo. L’ascesa degli islamisti dopo la fuga di Ben Ali, e la reazione della sinistra laica, hanno portato a un dibattito ideologico che ha forse eccessivamente distolto l’attenzione da quello economico e sociale che era alla base del malessere popolare. Di conseguenza, tutta l’attenzione della politica tunisina, anziché concentrarsi sulla riforma del modello economico del paese e di conseguenza mettere le basi per una costruzione di stabili istituzioni democratiche, è stata rivolta allo scontro tra i sostenitori dell’islam politico e i laici. Da una parte, il movimento islamista Ennahda e i suoi alleati accusava i rivali come nemici della religione musulmana; dall’altra, i laici tacciavano gli islamisti come pericolosi terroristi. Questa polarizzazione, oltre a indebolire la neonata democrazia nordafricana, ha diminuito la fiducia dei tunisini nel nuovo corso politico e nel processo democratico appena avviato. In questo contesto, l’estremismo ha acquistato sempre più spazio, in particolar modo nel triennio 2013-2015, dando modo ai nostalgici di Ben Ali di collegare i nuovi episodi di terrorismo alla caduta del regime. Durante la dittatura, le forze di sicurezza erano lo strumento di repressione preferito e la magistratura era lo strumento che consentiva la repressione su larga scala. Gli oppositori politici del regime finivano in prigione o sotto accertamento fiscale. Di conseguenza, nelle prime settimane del 2011, si è parlato molto della necessità di riformare questi due settori. Ma l’avversione della polizia e dei giudici al cambiamento e la scusa della lotta all’estremismo violento hanno reso il compito quasi impossibile.

Gli anni successivi, dal 2015 in poi, sono stati contrassegnati dalla messa in atto di un elevato livello di misure di sicurezza che hanno impegnato le forze dell’ordine nella sorveglianza e nella prevenzione. Questo ha causato un ritardo delle riforme economiche che sarebbe stato necessario adottare per evitare quell’implosione sociale prevista conseguente alla mancata attuazione di un programma di riforme sempre promesse e mai attuate. Una mancata attuazione che ha suscitato il crescente malumore popolare a cui assistiamo oggi

Il Primo Ministro tunisino Hichem Mechichi. Fonte: Atalayar.

Sebbene la Tunisia abbia abbandonato la fase di polarizzazione ideologica negli ultimi anni, le sue basi democratiche sono ancora fragili. Gli indicatori economici sono costantemente peggiorati dal 2011 ad oggi, la disoccupazione è in aumento e il panorama politico è costituito da partiti deboli e divisi. La migrazione è sempre più in aumento. Ma mentre i media e i politici occidentali si concentrano sull’immigrazione illegale, ciò che deve far preoccupare il paese nordafricano è quella legale, poiché migliaia di giovani laureati hanno lasciato il paese per andare in Europa nell’ultimo decennio, provocando una fuga di cervelli senza precedenti.

La corruzione è un altro ostacolo al progresso della Tunisia. Già a livelli altissimi sotto Ben Ali, la percezione di questa grave piaga tra i tunisini continua ad aumentare. In un recente sondaggio, oltre il 60% degli intervistati ha affermato di non fidarsi dei media nazionali, con i giornalisti spesso accusati di lavorare secondo direttive statali o di potenti oligarchi. Anche i partiti politici sono sospettati di trarre vantaggio dalla corruzione e addirittura di incoraggiarla. In tutto ciò, l’entrata in gioco del Covid sembra più che altro un acceleratore di queste condizioni delicate e instabili che caratterizzano il paese.

Una manifestazione popolare a Tunisi nel gennaio 2011. Fonte: Wikimedia Commons.

Infine, il contesto internazionale non sembra essere favorevole. La maggior parte dei regimi arabi resta contraria al processo democratico. La Francia sembra più interessata alla lotta al terrorismo politico che al rafforzamento della democrazia nel partner magrebino. Anche l’Italia è distratta dal problema migratorio. Viceversa l’Unione europea, in blocco, e la Germania in particolare, continuano a essere forti sostenitori dell’esperimento democratico tunisino. E poiché i paesi europei stanno ripensando il loro modello economico globalizzato dopo l’emergenza sanitaria, la Tunisia potrebbe rappresentare un ottimo partner di sviluppo e cooperazione nella fase di ricostruzione. Inoltre, neii prossimi quattro anni la nuova amministrazione statunitense guidata da Joe Biden potrebbe dare una boccata d’ossigeno anche ai leader democratici di Tunisi, poiché la promozione della democrazia nel mondo e il rispetto dei diritti umani riacquisteranno importanza nell’agenda della politica estera di Washington.

Lascia l’amaro in bocca vedere che a dieci anni da quello che era iniziato come un processo democratico inclusivo, molti giovani si sentono esclusi ancora una volta dalla vita pubblica. Molti dei manifestanti scesi in strada in questi giorni erano bambini quando il regime di Ben Ali è stato rovesciato e non hanno mai vissuto consapevolmente la vita sotto una dittatura. Questa nuova generazione di tunisini, fatta di giovani uomini e donne cresciuti sotto la democrazia, ha meno paura della repressione. Infatti, molti degli arrestati hanno fra i 14 e i 17 anni. Eppure le persone e le strutture che contestano oggi sono in gran parte le stesse di allora: un sistema che non permette loro di prosperare e uno Stato che, in assenza di infrastrutture e servizi di base per i suoi cittadini, soprattutto nelle zone emarginate, è prima di tutto rappresentato dalle forze di sicurezza.

Oggi la Tunisia ha bisogno urgente di una ristrutturazione della politica e della pubblica amministrazione al fine di stabilire con fermezza regole e standard di trasparenza nei processi decisionali, per garantire ai cittadini uno Stato di diritto che permetta loro di poter vivere liberamente. I politici trascorrono la maggior parte del loro tempo cercando di ottenere consenso, piuttosto che cercare soluzioni ad alcune delle questioni più urgenti : riforme nei settori amministrativo, della sicurezza e giudiziario, o politiche per promuovere l’occupazione e tutelare chi non riesce a trovare lavoro.

Senza tali cambiamenti, che dovrebbero essere sostenuti e promossi – se non addirittura imposti – dalla comunità internazionale, non ci sarà verso di uscire da questa spirale negativa. Tutte le proteste, rivolte e mobilitazioni che si sono osservate nel corso di questo decennio sono state gestite come un problema di sicurezza, esattamente come sta avvenendo anche ora. Ma il malessere di questi giorni non è altro che un grido di dolore di un popolo che soffre veramente. Ci si riferisce non solo al disagio socio-economico, ma anche ai problemi affrontati dai “non privilegiati”, vittime della burocrazia, delle istituzioni, della polizia. Ad oggi dietro le quinte sembra che non ci sia nessuno se non la rabbia di persone deluse e represse. Senza risposte positive e propositive a questo malessere sociale, la Tunisia rischia di cadere nella spirale di caos e violenza che già affligge molti paesi del mondo arabo.

Mario Savina