Israele 2021: una sfida su due fronti

Israele è entrato nel 2021 fronteggiando importanti sfide sia sul piano interno che a livello internazionale. La Knesset, il parlamento israeliano, è stata ufficialmente sciolta nella notte del 22 dicembre, decretando così la fine del governo di unità nazionale formato dal partito Likud, guidato dal premier Benjamin Netanyahu, e della forza politica Blu e Bianco del vicepremier e ministro della Difesa Binyamin (“Benny”) Gantz. Il mancato accordo per l’approvazione della legge di bilancio è stato il movente della crisi dell’esecutivo di coalizione, costituitosi nel maggio scorso per far fronte all’emergenza Covid-19. Per la quarta volta in due anni, quindi, gli elettori sono chiamati nuovamente alle urne – con le elezioni fissate per il 23 marzo 2021 – in un clima di graduale deterioramento della politica israeliana.

Da sinistra a destra: il leader del Likud Benjamin Netanyahu, il presidente di Israele Reuven Rivlin, il capo del partito Blu e Bianco Binyamin Gantz si incontrano per ufficializzare il primo governo di coalizione, settembre 2019. Fonte:
Wikimedia Commons.

Il 2020 può definirsi, infatti, come annus horribilis per la politica interna di Netanyahu. Le proteste popolari, iniziate in concomitanza con la formazione del governo di unità nazionale, hanno portato migliaia di persone a manifestare nelle piazze del paese per tutto l’anno. Destinatario principale degli attacchi è stato proprio Netanyahu, sia per il processo che lo vede imputato per corruzione, iniziato a lo scorso maggio ma posticipato a gennaio a causa della crisi sanitaria, sia per la gestione della pandemia di Covid-19 che ha duramente colpito il paese. Israele supera attualmente i 646 mila casi e conta quasi cinque mila decessi dall’inizio dell’emergenza, numeri che hanno spinto il governo a ordinare due lockdown generalizzati e a varare un piano economico da $25 miliardi, il più grande della storia di Israele, per fronteggiare su più livelli la crisi. Gli ingenti aiuti statali, però, non riescono a coprire completamente le gravi ripercussioni sull’economia israeliana, la quale registra una diminuzione del Pil nel 2020 di sei punti percentuali e un tasso di disoccupazione che si è attestato intorno al 15% nel mese di novembre, dopo aver raggiunto il picco del 27% nella fase più acuta della pandemia.

Una manifestazione di protesta di fronte all’abitazione di Netanyahu, Dicembre 2020.

Alle manifestazioni di dissenso nei confronti di Netanyahu e del suo governo si è aggiunta, specialmente nella seconda parte dell’anno, un’importante destabilizzazione politica culminata con il già citato scioglimento del parlamento. Non era un mistero, infatti, la difficile coesistenza tra il premier Netanyahu e il vicepremier Gantz con quest’ultimo che sarebbe dovuto succedere come primo Ministro nel novembre 2021, secondo il patto di governo stipulato dai due. «Credo non ci sarà nessuna rotazione» aveva riferito Gantz in una riunione di partito, consapevole delle reali intenzioni del suo alleato-rivale. Per questo aveva optato per la fine dell’esperienza dell’esecutivo supportando la mozione di sfiducia dell’opposizione, votata l’11 dicembre scorso nella Knesset con 61 voti favorevoli e 54 contrari. In questo scenario, la crisi politica si è propagata a macchia d’olio anche all’interno dello stesso Likud con l’abbandono di una figura di spicco come Gideon Saar, ex ministro dell’Istruzione e ministro dell’Interno dal 2009 al 2014. Già avversario di Netanyahu durante le primarie nel dicembre 2019, Saar ha deciso di abbandonare il partito per creare una nuova forza politica, la Nuova Speranza. Come sottolineato dallo stesso Saar, la rottura è scaturita dal cambiamento del Likud, trasformatosi in uno  “[…] strumento personale al servizio del suo leader, anche per i processi di corruzione”. Secondo le ultime proiezioni, il nuovo partito di Saar si attesterebbe in seconda posizione dietro al Likud grazie, soprattutto, alla conquista di quella fetta dell’elettorato in protesta contro Netanyahu, mentre al terzo posto si posizionerebbe un altro partito di destra, la Casa Ebraica di Naftali Bennett.

La complicata situazione politica di Israele ha trovato come contrappeso uno sviluppo positivo della politica estera grazie, in modo particolare, all’avvento degli Abraham Accords. A tre mesi dalla storica firma degli accordi (tenutasi a Washington il 15 settembre scorso) Israele ha potuto incrementare la propria sicurezza regionale contro il comune nemico iraniano e beneficiare di prosperosi vantaggi economici. L’accoglienza delle navi cargo emiratine nei porti israeliani e il consenso di Tel Aviv alla vendita di F-35 da parte di Washington ad Abu Dhabi sono state ripagate attraverso importanti accordi finanziari tra le maggiori banche dei paesi firmatari e significative convenzioni commerciali come la decisione di alcune aziende emiratine di comprare ed importare beni prodotti negli insediamenti israeliani dei Territori occupati.

Gli Abraham Accords si sono arricchiti di un ulteriore tassello grazie alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e il regno del Marocco ufficializzata il 10 dicembre scorso. L’ex presidente degli Usa Donald Trump, mediatore anche in questo caso come nei precedenti negoziati, ha definito questo nuovo accordo come «[…] un’immensa svolta per la pace in Medio Oriente». Nonostante queste esternazioni, il riconoscimento americano della sovranità marocchina sulla regione contesa del Sahara Occidentale genererà sicuramente un ulteriore fattore di destabilizzazione per il Medio Oriente allargato, in primis tra il Marocco e il Fronte Polisario sostenuto fortemente dall’Algeria.

La delegazione Israele-USA guidata dall’ex consigliere per il Medio Oriente e genero di Donald Trump, Jared Kushner (al centro), in visita a Rabat dopo la normalizzazione tra Israele e Marocco, 22 dicembre 2020. Fonte: Wikimedia Commons.

Per Israele, l’apertura diplomatica ufficiale con Rabat non significa solo il ricongiungimento con la più grande comunità ebraica all’interno di uno Stato arabo, ma permette di sviluppare enormi interessi economici e geopolitici. Il Marocco, infatti, si sta imponendo nell’ultimo decennio come paese-leader in Africa, specialmente nell’area sub-sahariana, attraverso una politica estera incentrata sugli investimenti nel settore economico, finanziario e tecnologico che lo hanno portato a diventare il secondo investitore africano nell’intero continente. In questo scenario, la normalizzazione tra Tel Aviv e Rabat diventa essenziale per le ambizioni israeliane di espansione della propria influenza geopolitica ed economica nel continente africano: il peso esercitato dal Marocco su alcuni paesi a maggioranza musulmana come la Mauritania, il Mali o il Niger, infatti, potrebbe spingere questi ultimi a seguire l’esempio marocchino e a revisionare così i propri rapporti diplomatici con lo Stato ebraico, favorendone così la penetrazione nel territorio.

Il riconoscimento ufficiale di Israele da parte del Marocco, in aggiunta, si carica di grande significato dal momento che la dinastia alawide, della quale fa parte l’attuale sovrano Mohammed VI, è l’unica nel mondo arabo che può fregiarsi della discendenza diretta dal Profeta Maometto. Questo dettaglio può diventare un elemento rilevante per Israele da portare al tavolo delle trattative con l’Arabia Saudita nel tentativo di convincere la dinastia regnante, custode dei luoghi sacri all’Islam, a sposare gli Abraham Accords. I rapporti informali tra Riyadh e Tel Aviv si sono notevolmente infittiti dopo il ciclo di normalizzazioni e sono culminati con un incontro segreto tenutosi alla fine di novembre nella città saudita di Neom tra il premier israeliano Netanyahu, il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman (MBS) e il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo. Le smentite ufficiali da parte delle autorità di Riyadh hanno incontrato, al contrario, grande risalto nei media israeliani grazie anche alle parole del ministro dell’Istruzione Yoav Gallant che ha evidenziato «il grande traguardo» raggiunto. Il vertice, oltre a essere un evento storico poiché vede per la prima volta un leader israeliano in suolo saudita, è un chiaro messaggio nei confronti del futuro presidente Biden e del suo tentativo di riaprire un canale di dialogo con l’Iran nel quadro dell’accordo sul nucleare. Nonostante la mancanza di rivendicazioni ufficiali, l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh (occorso pochi giorni dopo l’incontro trilaterale) sembrerebbe quindi come un’azione orchestrata dall’asse Israele-Arabia Saudita (con il beneplacito di Trump) non solo per un fine di sicurezza regionale – colpire una figura cardine del programma nucleare di Teheran –  ma soprattutto per una finalità politica, ossia ostacolare il futuro percorso dell’amministrazione Biden verso un possibile riaccostamento tra USA e Iran.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (a destra), il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman (al centro) e l’ex Segretario di Stato americano Mike Pompeo (a sinistra). Fonte: The Print.

Il 2021 sarà un anno molto intenso per Israele a partire, ovviamente, dal fronte interno con le elezioni che monopolizzeranno il dibattito pubblico per i mesi futuri. La prossima tornata elettorale difficilmente decreterà un vincitore per la mancanza di una maggioranza stabile in un contesto politico di profonda precarietà, accresciuta dalla recente creazione del nuovo partito di Gideon Saar, che sembra portare ad un unico risultato possibile: un nuovo governo di coalizione. Unica certezza nella nebbia elettorale semba l’affermazione della destra israeliana, con o senza Netanyahu, che si presenterà debole per la frammentazione interna, ma al contempo forte data la totale assenza di opposizione proveniente dal centro-sinistra.

Sul piano regionale, il ciclo di normalizzazioni tra Israele e il mondo arabo, epicentro delle dinamiche mediorientali nel 2020, subirà una battuta d’arresto nel breve periodo. Meno Stati arabi, infatti, saranno propensi a revisionare radicalmente i rapporti con lo Stato ebraico. Tra i potenziali nuovi partner ci sarebbero  l’Algeria, che però si trova in contrapposizione con il Marocco per quanto riguarda la controversia sul Sahara Occidentale, o il Qatar, che però non ha intenzione di abbandonare il sostegno alla palestinese per una piena normalizzazione con Israele. L’impatto del nuovo esecutivo Biden sul Medio Oriente sarà un altro elemento caratterizzante del 2021. La storica alleanza Israele-USA e gli Abraham Accords rimarranno pilastri fondamentali anche per la nuova amministrazione democratica, la quale non apporterà cambiamenti radicali nei confronti di Tel Aviv. Per Israele sarà importante analizzare, invece, la posizione americana nei confronti dell’Arabia Saudita, non ottimale per via delle violazioni dei diritti umani, e dell’Iran, nel quadro dell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa), al fine di riorganizzare la propria strategia di sicurezza all’interno della regione mediorientale.

Giacomo Chiarolla