Le conseguenze economiche della guerra tra Israele e Hamas

Il conflitto scatenato dall’aggressione perpetrata da Hamas contro Israele lo scorso 7 ottobre rappresenta un drammatico evento destinato a coinvolgere diversi attori internazionali e ad avere importanti ripercussioni globali. Sebbene ci sia ancora forte incertezza circa la durata della guerra e non sia ancora chiaro se questo conflitto possa rimanere localizzato o rischi di espandersi a livello regionale, gli eventi che hanno caratterizzato le ultime settimane hanno già generato importanti conseguenze economiche, che possono essere esaminate almeno in via preliminare. Dal punto di vista economico, la guerra sta infatti avendo implicazioni importanti per Israele, effetti decisamente negativi sulla Cisgiordania e sviluppi catastrofici per quanto riguarda la Striscia di Gaza. Il conflitto ha anche delle ripercussioni economiche globali e potrebbe colpire in maniera molto preoccupante le economie di alcuni dei paesi del Medio Oriente.

Un immagine satellitare della Striscia di Gaza e del sud di Israele scattata il 7 ottobre 2023. Fonte: Wikimedia Commons.

La guerra contro Hamas sta creando delle sfide piuttosto serie per l’economia israeliana. Israele rappresenta attualmente una delle economie più avanzate, diversificate, e competitive al mondo, con un reddito pro capite di 53.000 dollari e un settore hi-tech tra i più avanzati a livello mondiale. Dopo due anni di crescita piuttosto sostenuta (8,5% nel 2021 e 6,4% nel 2022), in parte a causa dell’effetto di “rimbalzo” seguito alla crisi generata dalla pandemia di Covid-19, l’economia israeliana, secondo le stime pubblicate dall’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (Osce) prima dell’inizio della guerra, ha conosciuto un rallentamento in termini di crescita del Pil. Questo dato si sarebbe dovuto assestare al 2,9% nel 2023 per poi riprendere una traiettoria di crescita che potenzialmente avrebbe potuto toccare il 3,3% nel 2024. Sempre secondo le stime dell’Osce, il tasso di disoccupazione sarebbe salito di poco (4,1% rispetto al 3,8% del 2022), mentre il tasso di inflazione registrato ad aprile 2023 era del 5%. Sebbene questo tasso fosse superiore all’obiettivo della Banca centrale israeliana, va notato che Israele aveva evitato piuttosto bene gli effetti inflazionistici determinati dalla riduzione dell’offerta globale di petrolio ed esacerbata dalla guerra in Ucraina, grazie ai giacimenti di idrocarburi scoperti del Mediterraneo del sud-est. Il rapporto tra debito pubblico e Pil si sarebbe dovuto assestare al 58,9% mentre il rapporto tra deficit e Pil sarebbe dovuto essere dell’1,1%. La risposta del governo israeliano agli attentati compiuti da Hamas sembra destinata ad avere importanti conseguenze sul piano economico, soprattutto nell’eventualità di un prolungato intervento militare.

Gli interventi militari possono avere un effetto di stimolo economico legato all’incremento della domanda generato dall’aumento della spesa pubblica nel campo della difesa, tuttavia, nel caso attuale della guerra di Israele contro Hamas, vari fattori potrebbero generare conseguenze economiche negative e comportare una recessione. In primo luogo, si può constatare che il governo israeliano ha mobilitato più di 360.000 riservisti, che saranno dunque temporaneamente sottratti alla forza lavoro per aggiungersi alle circa 170.000 unità regolarmente arruolate nelle forze armate del paese. La popolazione attiva di Israele conta circa 4,4 milioni di unità, e al momento in cui queste righe vengono scritte, circa 530.000 cittadini e cittadine israeliani in età lavorativa sono impegnati nella difesa del paese. Ciò significa che nel prossimo futuro, molti settori dell’economia israeliana dovranno fare i conti con una carenza di forza lavoro. A questa tendenza si aggiunge inoltre la prospettiva di una riduzione della manodopera straniera, e in particolare dei lavoratori palestinesi – per la maggior parte impiegati nell’edilizia e nell’agricoltura, circa 18.000 dei quali provenienti dalla Striscia di Gaza – che hanno perso il permesso di lavorare in Israele o sono dispersi dall’inizio del conflitto. Questa situazione potrebbe avere l’effetto di incrementare la partecipazione di alcune categorie della popolazione che sono marginalizzate dalla storia di successo che caratterizza l’economia israeliana e che non sono coinvolte nella difesa del paese – come i cittadini arabi di Israele o gli ebrei ultra-ortodossi. Tuttavia, integrare queste categorie di potenziali lavoratori potrebbe essere difficile e richiedere del tempo, e alcuni settori chiave, come quello dell’alta tecnologia, potrebbero essere colpiti in maniera particolarmente negativa da un conflitto prolungato. Il mercato azionario israeliano ha conosciuto un calo del 6% a seguito dell’attacco di Hamas. La guerra ha inoltre costretto il governo a evacuare circa 250.000 cittadini, e anche i settori del turismo, del commercio e della ristorazione sembrano destinati a subire un colpo.

Una mappa che illustra la situazione nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele. Fonte: Wikimedia Commons.

L’incremento della spesa pubblica dovuto alle esigenze militari è inoltre destinato ad avere effetti inflazionistici e ad aumentare il deficit. Israele riceve ogni anno dagli Stati Uniti 3,8 miliardi di dollari destinati a sostenere le spese militari, e a seguito degli attentati terroristici del 7 ottobre, l’amministrazione guidata da Joe Biden ha chiesto al Congresso di approvare un ulteriore stanziamento di 14 miliardi di dollari, che – seppur in maniera controversa sul piano della politica interna – sembra destinato ad essere approvato. Appare tuttavia chiaro che l’incremento della spesa pubblica è destinato a rappresentare un’importante fonte di preoccupazione per il Tesoro israeliano, soprattutto in caso di un intervento militare di durata significativa. A seguito degli attentati del 7 ottobre la valuta israeliana – lo shekel – ha subito una consistente svalutazione, raggiungendo i minimi rispetto al dollaro USA raggiunti nel 2016. Le agenzie di rating internazionali hanno manifestato preoccupazione, i costi del rifinanziamento del debito israeliano sono dunque divenuti più alti, e questa situazione di crescente difficoltà sui mercati finanziari internazionali si è estesa anche a paesi come l’Egitto, la Giordania e il Libano. 

Cinquant’anni fa, la Guerra dello Yom Kippur ebbe l’effetto di mettere in crisi il modello social-democratico che aveva caratterizzato Israele fin dall’indipendenza, favorendo un ripensamento della dottrina economica del paese, che si è progressivamente caratterizzata per un’impostazione neoliberista nell’ambito di cui si sono registrati importanti successi ma che ha anche reso Israele una delle economie più ineguali dell’Osce. Una situazione di conflitto prolungato potrebbe anche oggi avere effetti molto significativi sul modello economico del paese. Già prima della guerra la politica economica del governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu era stata criticata da molti esperti, che avevano espresso preoccupazione per le potenziali ricadute economiche della controversa riforma della giustizia voluta dal governo e della decisione di destinare ingenti risorse all’insegnamento di materie religiose a discapito dell’istruzione tecnica che negli ultimi anni ha determinato il successo Israele.  

Se la guerra sta avendo delle conseguenze piuttosto preoccupanti per l’economia israeliana, si può dire che essa rappresenti una catastrofe per i territori palestinesi, e soprattutto per la Striscia di Gaza. Come già notato, molti palestinesi che avevano il permesso di lavorare in Israele hanno perso questa possibilità. Ciò rappresenta un duro colpo, in quanto i salari che i lavoratori palestinesi possono percepire in Israele sono superiori rispetto a quelli della Cisgiordania o della Striscia di Gaza. L’economia palestinese è in generale fortemente legata a quella israeliana, e dunque gli effetti negativi del conflitto che sono stati esaminati nelle righe precedenti sono destinati ad influire negativamente anche sul Pil e sui livelli di disoccupazione dei territori palesinesi, e in particolare della Cisgiordania. Israele svolge inoltre un ruolo fondamentale nel prelievo delle imposte nei territori occupati, che vengono poi trasferiti all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich (leader Partito religioso sionista, formazione di destra religiosa e identitaria) ha manifestato l’intenzione di bloccare i trasferimenti all’Autorità palestinese. Questa decisione è stata contestata sia dal ministro della Difesa Yoav Gallant sia dal segretario di Stato statuniense Antony Blinken. Il governo israeliano ha infine deciso di autorizzare i trasferimenti, deducendo tuttavia da questi la somma che l’Autorità palestinese destina alla Striscia di Gaza, che dal 2007 è controllata da Hamas, ma riceve dall’Anp fondi che vengono spesi anche per la fornitura di medicine e per programmi di assistenza sociale.

Edifici distrutti nella Striscia di Gaza. Fonte: Wikimedia Commons.

L’economia della Striscia di Gaza è ovviamente colpita in maniera ancora più catastrofica dalla guerra. Già prima del 7 ottobre, la Striscia di Gaza aveva un tasso di disoccupazione del 45% ed era sottoposta a uno strettissimo regime di sanzioni economiche. Una delle prime misure adottate dal governo Netanyahu a seguito degli attentati terroristici di Hamas è stata l’interruzione della fornitura di elettricità, acqua, cibo e carburante. Questa decisione, incompatibile con i principi del diritto internazionale umanitario, ha ulteriormente esacerbato le condizioni di vita per i due milioni di abitanti che vivono nell’area (che ha un’estensione di circa 365 chilometri quadrati), il 40% dei quali ha un’età inferiore a 15 anni. Un rapporto della Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo basato su dati raccolti prima della guerra stimava che, per alleviare le condizioni di vita nella Striscia di Gaza, oltre alla fine delle sanzioni economiche, sarebbe stato necessario un importante programma di aiuti internazionali. Come notato dalla stessa agenzia al momento della presentazione del rapporto, è ora difficile quantificare l’entità economica della distruzione causata dall’intervento militare israeliano. La campagna militare israeliana, che secondo le stime fornite dalle autorità di Gaza ha causato 9.000 vittime, sta anche portando alla distruzione delle infrastrutture pubbliche e delle abitazioni private della Striscia, soprattutto per quanto riguarda la zona nord e Gaza City – dove, secondo alcune stime, almeno il 25% degli edifici è stato distrutto.

Come già accennato, la guerra sta avendo ricadute economiche anche oltre Israele e i territori palestinesi. Anche se al momento questi effetti sono stati contenuti, un conflitto prolungato e un’escalation tale da coinvolgere altre potenze regionali o internazionali potrebbe avere conseguenze globali molto serie. Al momento le economie toccate più seriamente dal conflitto sono quelle dei paesi vicini a Israele, e in particolare quelle di Egitto, Libano e Giordania, che stanno sperimentando una diminuzione del turismo, una maggiore pressione sulle finanze pubbliche, e un aumento delle tariffe assicurative in relazione al trasporto dei beni nella regione, e potrebbero dover fronteggiare i costi di un afflusso di rifugiati dalle zone di guerra.

Navi petroliere nel Mediterraneo . Fonte: Wikimedia Commons.

A livello globale, il conflitto sta generando pressioni e preoccupazioni soprattutto in relazione ai mercati dell’energia. Il prezzo del petrolio ha conosciuto un’impennata nei giorni successivi agli attentati terroristici di Hamas, ma al momento questo effetto non è stato particolarmente decisivo. I prezzi delle risorse energetiche sono al momento relativamente alti soprattutto per via della decisione dei governi di Russia e Arabia Saudita di collaborare al fine di limitare la produzione e ridurre l’offerta globale di idrocarburi per massimizzare le rendite. Questo scenario cambierebbe tuttavia radicalmente se il conflitto si espandesse a livello regionale, e in particolare se ci fosse un coinvolgimento dell’Iran tale da compromettere la sicurezza del Golfo Persico. Al momento in cui questo articolo viene scritto, il prezzo del petrolio in base all’indice West Texas Intermediate (Wti) è di circa 81 dollari USA al barile. Secondo gli scenari elaborati dalla Banca mondiale, il prezzo potrebbe superare i 150 dollari al barile in caso di un vasto conflitto regionale. La preoccupazione per una crisi energetica simile a quella vissuta a ridosso della Guerra del Kippur del 1973 appare piuttosto pressante dal punto di vista della sicurezza europea. L’Ue sta infatti cercando di diversificare le proprie fonti di energia in risposta alla guerra in Ucraina, e la sicurezza del Golfo Persico e delle forniture di petrolio mediorientale sono di fondamentale importanza in questo sforzo. La maggiore incertezza generata dal conflitto potrebbe inoltre indurre gli investitori internazionali a optare per asset finanziari più sicuri, e questa scelta potrebbe creare pressioni sui mercati emergenti e sulle economie più fragili.

Una petroliera nel porto di Amsterdam durante la crisi petrolifera del 1973. Fonte: Wikimedia Commons.

La crisi esplosa lo scorso ottobre presenta quindi numerose analogie con quella che cinquant’anni fa, in occasione della Guerra del Kippur, diede il via allo shock petrolifero e portò a una profonda crisi del sistema capitalista internazionale, oltre che a importanti cambiamenti geopolitici nel Medio Oriente e in Israele. Al momento, nonostante l’orrore causato dall’aggressione terrorista del 7 ottobre e dalle drammatiche conseguenze umanitarie generate dalla guerra tra Israele e Hamas, l’economia mondiale sembra aver assorbito lo shock del conflitto. La situazione potrebbe tuttavia cambiare radicalmente se la guerra dovesse rivelarsi particolarmente lunga e raggiungere un livello di gravità tale da provocare un aumento dell’instabilità regionale o coinvolgere ulteriori attori.

Diego Pagliarulo