Il nucleare iraniano nella spirale della guerra e della crisi di regime

Sabato 4 marzo Rafael Grossi, il direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica, ha concluso una missione di due giorni in Iran. Il viaggio, nelle parole di Grossi, ha permesso una “discussione costruttiva” e alcuni progressi circa le possibilità di rilanciare il dialogo a riguardo del programma nucleare iraniano che rappresentano una preziosa nota positiva in un quadro purtroppo sempre più fragile. La questione del nucleare iraniano rappresenta da anni una delle sfide più difficili e destabilizzanti nel complesso e delicato panorama della sicurezza mediorientale. Nel corso degli ultimi dodici mesi, una tragica combinazione di eventi globali – in particolare la guerra in Ucraina – e sviluppi politici interni – come l’ondata di proteste contro il regime esplosa lo scorso settembre – hanno contribuito a rendere questo dossier, dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche, estremamente più complicato da gestire.

Il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, durante la conferenza stampa a seguito della missione in Iran.
Fonte: Wikimedia Commons.

Secondo il governo di Teheran, il programma nucleare iraniano ha fini puramente civili ed è compatibile con il trattato di non proliferazione, di cui l’Iran è una parte contraente. Questa versione ha tuttavia incontrato lo scetticismo da parte della comunità internazionale ed è stata più volte smentita dai servizi di intelligence degli Stati Uniti e di altri paesi alleati. La possibilità di una bomba atomica iraniana crea una serie di dilemmi strategici sia per i paesi occidentali sia per quelli del Medio Oriente. 

Partendo dal presupposto che i leader iraniani siano individui razionali, un Iran dotato di un ordigno atomico non rappresenterebbe necessariamente una minaccia diretta per gli Stati Uniti o per i paesi occidentali. Da un punto di vista militare, l’arsenale atomico di Washington (a cui possono essere aggiunti anche quelli di Francia e Gran Bretagna) rappresenta infatti un deterrente estremamente efficace che il regime di Teheran non potrebbe assolutamente neutralizzare. Una bomba nucleare iraniana non sarebbe necessariamente una minaccia esistenziale neanche per gli alleati mediorientali degli USA – e soprattutto per Israele, che ha un suo arsenale atomico, anche se non dichiarato (va osservato tuttavia che il regime di Teheran non riconosce il diritto di esistere dello Stato di Israele, e questa posizione estremista influenza naturalmente il calcolo strategico israeliano). Va tuttavia notato che la premessa secondo cui i leader iraniani siano razionali potrebbe dimostrarsi sbagliata o cessare di essere valida in futuro, soprattutto in una situazione di grave tensione interna e internazionale, una prospettiva che al momento non appare poi così improbabile. Va inoltre osservato che l’eventualità di un Iran capace di produrre autonomamente una bomba o in possesso di un arsenale atomico – per quanto limitato – avrebbe in ogni caso un forte impatto psicologico e politico in tutto il Medio Oriente, e potrebbe indurre altri governi della regione, come l’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo Persico, a cercare di procurarsi un loro deterrente atomico, innescando così una pericolosa spirale di proliferazione nucleare in una regione già dilaniata da rivalità internazionali e tragici conflitti interni.

Questa difficile e delicata questione di sicurezza aveva trovato una parziale soluzione nell’estate del 2015 con la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (anche noto con l’acronimo Jcpoa o semplicemente come “accordo sul nucleare iraniano”), un trattato firmato dai rappresentanti di Iran, Stati Uniti (allora guidati da Barack Obama), Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania (e con la partecipazione di rappresentanti dell’Unione europea). Lo scopo dell’accordo è quello di consentire all’Iran di perseguire il programma nucleare a scopi civili: il governo iraniano si è impegnato a limitare o esternalizzare alcuni passaggi chiave della produzione di materiale fissile e a consentire un regime di ispezioni internazionali presso i centri legati al programma nucleare; in cambio le altre parti contraenti si sono impegnate ad eliminare gradualmente le sanzioni economiche contro il regime di Teheran. L’accordo del 2015 non poneva fine alla relazione conflittuale tra l’Iran e l’Occidente e non risolveva altre questioni spinose legate al ruolo regionale del regime, come il programma missilistico e il sostegno a una rete clientelare di milizie e gruppi terroristici. Tuttavia, nonostante i limiti, il quadro creato dal Jcpoa rappresentava una svolta molto importante e positiva che creava una credibile garanzia di evitare una bomba atomica iraniana per almeno dieci anni e stabiliva un sistema di incentivi di cooperazione che avrebbero potuto avere ricadute positive anche su altri dossier.

I rappresentanti delle parti che hanno negoziato l’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Fonte: Wikimedia Commons.

Sebbene l’accordo sia formalmente ancora in vigore, il regime di incentivi virtuosi da esso creato è stato severamente compromesso, e ad oggi le possibilità di ripristinare il quadro di cooperazione del 2015 appaiono decisamente scarse. Un primo duro colpo all’accordo è stato inferto dall’amministrazione americana guidata da Donald Trump nel 2018, quando il governo degli Stati Uniti si è ritirato dall’accordo (nonostante il fatto che le stesse autorità statunitensi avessero certificato il rispetto degli impegni da parte dell’Iran) e, nel nome di una strategia di “massima pressione”, ha ripristinato le sanzioni che erano state eliminate. A seguito di questa decisione anche il regime di Teheran ha iniziato a violare le clausole dell’accordo, e in particolare ha ripreso l’attività di arricchimento dell’uranio.

La strategia di “massima pressione” di Trump ha avuto unicamente l’effetto controproducente di rendere molto più concreto il rischio di un’atomica iraniana, e a partire dal 2021, l’amministrazione guidata da Joe Biden ha manifestato l’intenzione di ripristinare la cornice del Jcpoa. Questa nuova linea è stata tuttavia ostacolata sia dalla volontà da parte di Washington di rinegoziare di fatto l’accordo al fine di renderlo “più forte e duraturo” sia da un irrigidimento della posizione del regime di Teheran, in particolare a seguito dell’elezione dell’ultra-conservatore Ebrahim Raisi alla presidenza del paese nel giugno 2021.

Come già accennato, le possibilità di rivitalizzare il Jcpoa si sono ulteriormente indebolite nel corso dell’ultimo anno. Per vari motivi, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha avuto ricadute particolarmente negative anche in relazione al dossier del nucleare iraniano. In primo luogo, la brutale guerra di aggressione lanciata dal regime di Vladimir Putin ha mandato in frantumi le possibilità di cooperazione pragmatica fra grandi potenze che aveva consentito nel 2015 di creare le pressioni necessarie per convincere l’Iran a firmare l’accordo. La possibilità di ripristinare questa dinamica di cooperazione è inoltre ostacolata dalla natura sempre più tesa della relazione fra Stati Uniti e Cina. La polarizzazione globale generata dall’aggressione russa ha favorito una maggiore sintonia politica fra Mosca e Teheran, con conseguenze significative anche in termini di collaborazione militare fra Russia e Iran. A partire dallo scorso agosto, l’Iran ha fornito alla Russia dei droni che sono stati utilizzati in Ucraina. Come riportato dal Guardian nel mese di novembre il governo di Mosca ha ottenuto da Teheran nuovi droni con un più ampio raggio d’azione, oltre ad aver manifestato interesse anche per l’acquisizione di missili balistici, che finora non sono stati forniti. Nella contrapposizione tra Russia e Occidente generata dall’invasione dell’Ucraina, il regime di Teheran ha dunque deciso di schierarsi chiaramente dalla parte dell’aggressore russo, e ciò rende la prospettiva di un negoziato proficuo tra Stati Uniti e Iran molto più improbabile.

Il presidente russo, Vladimir Putin, e il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, nel luglio 2022. Fonte: Wikimedia Commons.

Le possibilità di ripristinare l’efficacia dell’accordo sul nucleare iraniano sono state inoltre fortemente indebolite dalla crisi interna che il regime di Teheran si trova ad affrontare a partire dallo scorso settembre, a seguito dell’orrenda morte di una donna iraniana, Mahsa Amini, che era stata arrestata dalla “polizia morale” del regime con l’accusa di non aver indossato correttamente il velo. Questa orribile vicenda ha scatenato un’ondata senza precedenti di proteste, che nonostante le brutali repressioni da parte del regime, è ancora in corso al momento in cui queste linee vengono scritte. A partire dallo scorso autunno, in reazione alla spirale di violenza, sia gli Stati Uniti che l’Unione europea hanno imposto delle ulteriori sanzioni nei confronti dell’Iran. Sebbene la crisi possa essere letta come una dimostrazione di una perdita di legittimità praticamente irreversibile per il regime di Teheran, la conseguenza immediata delle proteste sembra essere stata un rafforzamento delle fazioni più reazionarie sul piano interno e bellicose a livello internazionale. 

Così come la guerra in Ucraina, anche la crisi di regime in corso in Iran sembra dunque aver ulteriormente compromesso le possibilità di riprendere i negoziati sul programma nucleare, che nel frattempo sta scivolando sempre più verso il rischio concreto di una bomba atomica. Nel novembre dello scorso anno l’Iran ha annunciato la ripresa delle attività di arricchimento uranio oltre la soglia del 60%, e secondo quanto riportato pochi giorni fa dagli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, attualmente il regime di Teheran è in grado di ottenere uranio arricchito all’83%, molto vicino alla soglia del 90% necessaria per produrre una testata atomica. Secondo il direttore della Cia William Burns, i vertici del regime di Teheran non hanno ancora preso la decisione di procedere alla la costruzione di un ordigno nucleare. Tuttavia i servizi di intelligence americani ritengono che a questo punto, l’Iran potrebbe produrre abbastanza uranio arricchito per realizzare una testata nell’arco di dodici giorni, mentre i progressi del regime nel campo della tecnologia missilistica rendono i rischi di una bomba atomica iraniana sempre più concreti.

Un missile balistico iraniano Fateh-110. Fonte: Wikimedia Commons.

Sebbene gli USA e i loro alleati abbiano a disposizione degli strumenti alternativi ai negoziati per contrastare la possibilità che il regime di Teheran si doti di un arsenale nucleare, un esame del ventaglio di opzioni ci fornisce un quadro subottimale. Uno strumento che è già stato utilizzato sia in parallelo ai negoziati che a seguito della conclusione dell’accordo del 2015 è rappresentato da operazioni aggressive che non permettono di determinare chiaramente l’identità degli esecutori, come iniziative di guerra cibernetica, assassini mirati o altri tipi di operazioni di sabotaggio. Lo scorso 29 gennaio, un attacco tramite drone – attribuito a Israele dal governo di Teheran e da alcuni media americani – ha fortemente danneggiato il complesso militare-industriale di Isfahan, legato al programma nucleare iraniano. Queste operazioni si sono dimostrate in grado di ritardare o portare indietro, ma non di fermare, il programma nucleare del regime di Teheran.

I principali siti facenti parte del programma nucleare iraniano, incluso il sito di Isfahan che è stato oggetto di un attacco nel gennaio 2023. Fonte: Wikimedia Commons.

Esiste inoltre la possibilità di ricorrere a un’operazione militare più esplicita e su scala più ampia. Quest’opzione è presa in considerazione sempre più seriamente sia dai leader statunitensi che dai loro omologhi israeliani. Recentemente Israele è passato nell’area di responsabilità del Central Command (o Centcom), il comando delle forze armate statunitensi che si occupa di pianificare interventi militari in Medio Oriente. Questo cambiamento conferisce a Israele un ruolo più importante agli occhi dei pianificatori di Washington rispetto alla precedente posizione del paese nel quadro dell’European Command (o Eucom). Lo scorso novembre gli Stati Uniti e Israele hanno condotto un’esercitazione militare congiunta con lo scopo di migliorare le capacità di condurre operazioni a lungo raggio nei confronti di paesi “distanti,” e nel gennaio di quest’anno le forze armate dei due paesi hanno condotto un’ulteriore esercitazione, di una portata senza precedenti (l’operazione Juniper Oak). Oltre all’incompatibilità di un intervento militare aggressivo con i principi del diritto internazionale, un’operazione militare di controproliferazione sarebbe molto difficile da realizzare dal punto di vista operativo, logistico e politico sia per gli USA che per Israele. È inoltre ragionevole prevedere che anche un’operazione perfettamente riuscita avrebbe probabilmente un risultato limitato, essenzialmente quello di ritardare il programma. L’Iran ha infatti le competenze tecniche e tecnologiche per ricostituire il programma nucleare e potrebbe inoltre organizzare una rappresaglia asimmetrica, spingendo la sua rete clientelare regionale fatta di le milizie e gruppi terroristici a condurre attacchi contro Israele o unità o rappresentanti statunitensi e alleati schierati nella regione. Un attacco militare potrebbe infine paradossalmente incoraggiare l’Iran ad accelerare il programma, offendo per di più al regime di Teheran una giustificazione politica da presentare alla comunità internazionale.

L’esercitazione Juniper Oak, che ha avuto luogo tra il 23 e il 26 gennaio 2023.
Fonte: Wikimedia Commons

Sebbene la brutalità della campagna di repressione condotta dal governo di Teheran induca chiunque abbia a cuore la tutela dei diritti umani ad augurarsi il crollo del regime, come già osservato questo sviluppo appare purtroppo improbabile nel breve periodo e il pantano militare sviluppatosi in Iraq a seguito del rovesciamento del regime di Saddam Hussein da parte dell’amministrazione di George W. Bush nel 2003 suggerisce chiaramente che un’operazione di cambio di regime in Iran (un paese molto più grande, popoloso e dal terreno molto più difficile da controllare rispetto all’Iraq) avrebbe conseguenze estremamente drammatiche sia per gli Stati Uniti che per il popolo iraniano. L’ingente quantità di risorse necessarie a sostenere la resistenza ucraina contro l’invasione russa rendono quest’ultima ipotesi – già di per sé altamente sconsigliabile – persino più remota.

La via del dialogo sembra decisamente stretta e costellata di ostacoli, ma in assenza di una ripresa dei negoziati, gli Stati Uniti e i loro alleati rischiano di trovarsi di fronte all’amara scelta tra due mali: da una parte, l’eventualità di dover tollerare un Iran più repressivo sul piano interno, ostile a livello internazionale e al tempo stesso dotato di un deterrente nucleare; dall’altra, la prospettiva di frustrare temporaneamente le ambizioni nucleari del regime di Teheran con un intervento militare limitato, che tuttavia rafforzerebbe le stesse tendenze repressive e aggressive del regime, rendendo più drammatica la situazione per il popolo iraniano e innescando una spirale di conflitto militare estremamente difficile da interrompere. La guerra in Ucraina e la crisi di regime rendono dunque il dossier nucleare iraniano estremamente più volatile e scottante, e aumentano significativamente il rischio di una drammatica escalation militare in Medio Oriente.

Diego Pagliarulo